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Freitag, anagraficamente, è un brand millennial. Nasce nella prima metà degli anni Novanta; nel 2023 ha oltrepassato la soglia dei trent’anni. Lanciare in questo momento un prodotto nuovo, il suo più nuovo di sempre probabilmente, quindi, è un gesto fortemente simbolico. Questo “nuovo” di cui parliamo non è qualcosa che non c’entra con Freitag, un cellulare o un paio di cuffie per esempio o una collaborazione sull’arredamento, che sarebbero soprattutto mosse di marketing; il nuovo, per l’azienda di Zurigo, è una messa in discussione della propria identità.
Il riuso fin dal suo anno zero dei teloni per camion per trasformarli in borse è stato per Freitag l’incontro perfetto di etica ed estetica. Etica, perché ha inscritto nel dna del marchio l’attitudine alla sostenibilità quando ancora se ne parlava pochissimo, a cavallo tra i due secoli; ed estetica, perché l’ha resa immediatamente riconoscibile in tutto il globo, con borse e zaini e altri prodotti tutti in qualche modo simili, ma nessuno uguale l’uno all’altro.
Lo zaino Mono[pa6] nasce dall’ambizione di Freitag di creare una borsa facilmente riparabile e completamente circolare, che concluso il ciclo di vita potrà essere smantellata e trasformata in altro; è un design che esplode al suo massimo le ambizioni etiche del brand, sacrificando totalmente l’iconografia che lo contraddistingue attraverso la proposta di uno zaino bello ma anonimo, minimale e no logo se non per la piccola scritta Freitag sullo spallaccio sinistro. “So we hope that the people will say: Oh! that bag doesn’t look like Freitag at all - but the philosophy behind the bag is more Freitag than ever”, a brand representative points out.
#### Il Mono[Pa6]
L’impiego del monomateriale e la facilità di riparazione sono i due elementi chiave del design di questo zaino. E senza dubbio, ciò che lo rendono speciale: uno zaino, come spiega Freitag, creato ==“with the product’s end in mind”==. Tutti i 17 gli elementi dello zaino sono di poliammide 6.
“Nylon can be extruded into yarns and woven into fabrics or molded into hardware”, spiega Siu a *Domus*, sottolineando che non è certo una novità, ma nell’ideazione dello zaino è diventata una applicazione ovvia per creare un sistema circolare. Per il corpo principale dello zaino, è stato sviluppato un “new three-layer laminate ripstop fabric”, leggero e resistente all’acqua. Ed effettivamente anche usato sotto un acquazzone lo zaino non si è bagnato all’interno.
L’uso di un singolo materiale e di un unico colore non deve fare pensare a uno zaino dall’andamento monotono. Ci sono tanti dettagli che lo rendono speciale e interessante. Come la grande toppa in tessuto crespo che si nota sulla parte esterna, “produced by a machine that pulls and stretches the nylon fabric in a short and repetitive motion, creating the special texture”, spiega Siu.
Anche le cuciture sono particolari. C’è un aspetto funzionale, spiega il designer: “the external double folded seams and knots are for ‘reversible disassembly’”. E aggiunge che “this will help the repairer’s work one day and enables the repaired product to look as close as possible to the original finish”. E ancora, spiega che “all seams are easily accessible and the cord, back padding and other trims can be easily removed and therefore replaced with little effort”. Il bianco delle cuciture è uno dei pochi contrappunti al nero omogeneo dello zaino.
Gli spallacci sono larghi e non imbottiti. Questa scelta è stata dovuta all’impiego del nylon come unico materiale. “In the initial prototyping period we also experimented with padded straps”, spiega Siu. Tuttavia, così “they turned out to be quite stiff”. Da qui la decision “to move on with unpadded, light-weight but broad shoulder straps which are spreading the weight across the shoulders well”.
Avere degli spallacci così sottili è anche parte di un più ampio pensiero di design dello zaino: sono state favorite la leggerezza e la possibilità di piegarlo e trasportarlo. Anche al suo interno la tasca per riporre il computer è morbida e protegge solo la base di un laptop. Il Mono[pa6] è uno zaino agile ed elegante, che si ripiega in una borsa più grande, non costruito certamente per portare troppe cose o carichi eccessivi. La totale mancanza di elementi rigidi lo rende immediatamente scomodo e faticoso sulla schiena se al suo interno vengono riposti oggetti troppo pesanti.
È uno zaino leggero per una vita leggera, va benissimo anche per un weekend se non pensate di caricarci una impegnativa attrezzatura fotografica. La zip laterale (ovviamente in pa6) e il sistema di chiusura con arrotolamento velocizzano l’accesso al contenuto.
#### Una nuova lineup
La chiusura con il cordino e un fermaglio che si stringe e allenta; le originali fibbie in pa6 che sostituiscono bottoni o altre parti in metallo; le cuciture sul fondo che danno un taglio diagonale agli angoli dello zaino. La lezione del Mono[pa6] è che per arrivare alla sostenibilità non basta semplicemente “cambiare” i materiali. Lo sforzo di design sarà per forza consistente: bisogna pensare nuove soluzioni e abbandonarne di vecchie, che davamo per scontate.
Con questo zaino in spalla, ci si sente un passo nel futuro e uno in una realtà parallela. Provandolo, non c’è mai stato un giorno in cui lo zaino sia risultato scomodo, nonostante tante cose siano un compromesso – vedi la tasca interna per il laptop. Se Jeffrey Siu decanta l’estrema flessibilità del nylon nel prendere forme diverse – parti solide, tessuto, cordini –, Freitag lamenta l’estrema fatica nel reperimento del materiale: “we didn’t expect”, says the brand, “that reduction in the number of materials would increase the complexity of the project, especially as regards sourcing, so drastically”.
Un elemento che caratterizza in maniera unica lo zaino è sicuramente la borsa sganciabile, che può anche essere indossata autonomamente con l’uso di una tracolla. Si aggancia alla parte posteriore dello zaino, con la zip in evidenza o nascosta, e si può portare anche sul petto, grazie a due fibbie poste sugli spallacci. Siu racconta a Domus che fin dall’inizio, nel processo di sviluppo del Mono[Pa6], “c’erano i concetti di modularità e compatibilità”. Nel corso della fase di prototipizzazione, “sono stati esplorati diversi modelli per trasferire questo concetto nel progetto dello zaino”. E alla fine “the detachable musette was adopted”.
La presenza di attacchi davanti e dietro allo zaino farebbero pensare alla possibilità di nuovi moduli sganciabili in arrivo in futuro, con uno zaino veramente modulare (e sappiamo che modularità fa rima con sostenibilità). Freitag fa sapere che i non ci saranno altri accessori, ma i piani sono quelli di trasformare il concetto di Mono[Pa6] in una famiglia di prodotti.
E chissà se un giorno, tra trent’anni, identificheremo Freitag proprio con queste borse in nylon riciclato e facilmente riciclabili.
# Abbiamo provato Sonos Ace, le prime cuffie Sonos
Abbiamo avuto la possibilità di provare il design minimale del primo dispositivo indossabile di Sonos: ecco com’è andata.
Le Sonos Ace sono delle cuffie minimaliste, molto minimaliste; leggere; confortevoli da indossare. È il primo dispositivo wearable, indossabile, di Sonos, che negli anni si è imposto come il più affidabile sistema di audio connesso per la casa. Speaker belli e funzionali, studiati per essere semplici da usare e per integrarsi facilmente in ogni contesto domestico, connessi via wifi e integrati su una app-piattaforma che raccoglie i maggiori servizi di streaming e presenta qualche chicca, come le Sonos Radio curate da artisti di rilievo come Thom Yorke o Lorde o Brian Eno. L’evoluzione di Sonos racconta bene come ci siamo interfacciati alla musica in questo primo quarto di secolo: dalla necessità di ascoltare in ogni stanza una libreria musicale fisica presente nell’hard disk di un singolo computer, all’integrazione di Spotify e degli altri servizi streaming con supporti fisici da collezione come i vinili.
Nel 2021, Sonos è uscito per la prima volta di casa con Roam, il suo primo speaker portatile bluetooth. Ora, si lancia in un campo completamente nuovo, quello dell’audio indossabile, con un paio di cuffie, a lungo attese (e a questo punto prevediamo che prima o poi potrebbero arrivare anche degli auricolari…).
==[spiega di Sonos su rilevanza cuffie]==
==Sonos Ace vs AirPods Max==
Nell’affollato mercato delle cuffie di questa prima metà degli anni ’20, sono state le AirPods Max di Apple a definire un nuovo benchmark estetico. Sono probabilmente l’unico design di Apple che sia sfuggito alla canonizzazione del proprio prodotto industriale e l’ispirazione Think Different di anni rivoluzionari per Cupertino – gugolate come reference “iBook 1999” per capirci – e sono quelle cuffie che qualsiasi tradizionalista che vi ha visto indossarle avrà commentato con un “Ma come fanno a piacerti! Quelle non sono delle cuffie!”.
Con la AirPods Max, Apple ha decostruito il concetto di cuffia e l’ha condensato in un oggetto fluido e clamorosamente bold. Nell’estetica, sostituendo il classico l’archetto con una telaio di metallo e maglia, dilatando al massimo la scala dei padiglioni auricolari, integrando tra i comandi tattili la corona digitale già vista sui suoi orologi e spostando i pulsanti a portata di indice e medio. E all’interno, ci ha messo un chip.
Il progetto delle cuffie di Apple si muove con una forza centripeta che le pone in controcanto rispetto alle cuffie come le avevamo conosciute; l’approccio di Sonos invece è quello di un recupero di forme e materiali originali per arrivare a una sintesi di semplicità. Di fronte al massimalismo delle AirPods Max, alla loro leggera pesantezza, al contrasto tattile tra la maglia e il metallo, le Sono Ace si distinguono per un minimalismo che a un primo sguardo potrebbe richiamare una fase prototipale, quasi embrionale, come se queste cuffie fossero uno studio di forme, quasi un archetipo. Certo, la lezione Apple che ha informato tutte le ultime tendenze delle cuffie si sente: i padiglioni sono dilatati, il metallo a vista c’è, mentre sembra oltrepassato l’azzardo di inserire comandi touch sulla superficie delle cuffie – spesso disastrosi per esperienza d’uso. In più, Sonos “copia” l’idea di rendere rimovibile con uno sgancio magnetico la parte dei cuscinetti, quella che si usura più facilmente e potrebbe essere necessario cambiare. Unico vezzo estetico, in realtà assai funzionale per distinguere il destro dal sinistro, il loro interno, che presenta due colorazioni differenti.
Le imbottiture in pelle vegana delle Sonos Ace sono generose, sia dove si appoggiano alle orecchie, sia nell’archetto, l’impiego della plastica le rende leggere, calde e piacevoli al tatto. I comandi sono minimali, un pulsante di accensione e connessione – ma le cuffie dovrebbero accendersi automaticamente quando indossate –, un interruttore per regolare il volume e mettere in pausa la riproduzione, il tasto di attivazione della cancellazione del rumore e niente di più. Tutto piccolo, minimal, forse troppo. Sonos ha deciso di non creare una app ad-hoc, ma integrare le Ace nella sua applicazione già esistente. Anche qui il menù è estremamente semplificato e le opzioni sono solo quelle essenziali: un approccio minimalista che è molto diverso da quello di altri, come per esempio Sony. Quando le si sfila dalla testa e le si porta al collo, le cuffie risultano comode, senza essere comodissime. Fa un po’ strano avere in mostra la parte interna del padiglione, la più delicata, quando le si porta così. Per riporle, invece, c’è una custodia ruvida e piacevole al tatto. Le cuffie, adagiate all’interno, disegnano un sorriso: una scelta del tutto classica (e ingombrante) rispetto a quella iper-industriale delle AirPods, che hanno una cover magnetica, e non una custodia, con cui si trasformano in un oggetto inerte che sembra una borsetta ma contiene solo se stesso.
==Approccio di design Sonos==
Chiusa (menziona audio Lossless e collegamento con soundbar)
# Smetteremo di invecchiare: ma a quale costo?
#### Una mostra a Basilea crea un percorso tra scienza e finzione per raccontare un mondo, quello della super longevità e di una giovinezza quasi eterna, che potrebbe essere molto più vicino di quanto pensiamo.
###### Di Alessandro Scarano
Welcome back. Bentornato, bentornati. È questa la scritta che si presenta ai visitatori in fondo al corridoio immacolato e luminoso che fa da spazio d’uscita di “The end of aging”, la mostra sull’invecchiamento allestita al Kulturstiftung Basel H. Geiger di Basilea. O forse non è un messaggio per loro, ma per Kaspar, protagonista del racconto che occupa un buono spazio del volume che accompagna l’esposizione. Dopo un lungo sonno criogenico, Kaspar si sveglia nel futuro in un ospedale abbandonato, proprio come lo spazio che è stato scenografato per ospitare la mostra. “Per molti visitatori l’uscita è un nuovo inizio, perché fanno un nuovo giro”, spiega Michael Schindhelm, creatore (non “curatore”, sottolinea lui stesso) di “The end of aging”, nonché autore del racconto in questione.
Vivere per sempre o prolungare la vita su questo pianeta all’infinito è un sogno che accompagna l’umanità da epoche antichissime e attraversa le narrazioni e i miti di ogni cultura. Solo recentemente è passato a essere un progetto scientifico, spiega a *Domus* Michael Schindhelm, regista e curatore di lungo corso con un background da scienziato. Ma se negli anni Novanta la prospettiva di vita eterna passava attraverso la fusione tra essere umano e computer, oggi è la biologia che, grazie alla genetica, proietta un futuro in cui vivremo il doppio e soprattutto non invecchieremo proprio. Si chiama “la fine dell’invecchiamento”, la mostra, ma poteva chiamarsi “la fine della sofferenza”. La sofferenza del corpo e della mente che decadono. La statua di una tartaruga accoglie il visitatore all’ingresso: sono creature che vivono fino a 250 anni, spiega Schindhelm, ma il loro corpo resta fino alla morte circa come era a 50.
La mostra è organizzata in due fasi, due grandi polarità in dialogo tra di loro. Schindhelm ha creato nella prima un percorso di speculative fiction per raccontare un mondo in cui il sogno della longevità si è avverato. Il visitatore è immerso in uno scenario di fantascienza, con molte eco cyberpunk, ma in qualche modo sta camminando all’interno di un futuro che potrebbe davvero essere il nostro. Per l’occasione gli spazi espositivi della Kulturstiftung Basel H. Geiger sono stati trasformati nella replica di un ospedale abbandonato, con il contributo di Giulio Margheri di Oma, Luca Moscelli, fondatore di Buromosa e il sound designer Till Zehnder. Lo spazio è cupo, postapocalittico, ma al tempo stesso “l’ospedale è una metafora della nostra società”, spiega Schindhelm, “siamo tutti visitatori, in un ospedale”, e dopo che la pandemia ne ha evidenziato il lato oscuro, è anche diventato un “simbolo del trascurare”.
Alla fine di un percorso tra le stanze buie e graffitate di un ospedale abbandonato dove le uniche eco di una umanità costretta a vivere per sempre sono incapsulate nei video, il visitatore entra nella grande recovery room. Adagiati come pazienti sui lettini, con le cuffie appoggiate dove dovrebbero esserci le flebo, si assiste alla parte documentaristica della mostra, un montaggio di più di un’ora e in 15 capitoli nel corso del quale intervengono nomi del pantheon della scienza della longevità, come il biologo molecolare Michael N. Hall, il premio Nobel in chimica Venki Ramakrishnan, l'epidemiologa Jess Bone e altri scienziati di livello mondiale.
“Accostare finzione e non-fiction permette ai visitatori di fare esperienze nella spazio e lasciarsi provocare”, spiega Schindhelm, che ha creato la mostra come l’accostamento tra una parte “immaginativa” e una “illuminante”: come spiega lui, “l’arte comunica alla pancia e al cuore, la scienza al cervello”. Servivano dunque entrambe per un tema così complesso. Dopo la recovery room si accede al corridoio bianco, “welcome back”: “molte persone non escono, restano molto a lungo”.
“Non fare mai mostra noiose!”, questa l’indicazione che Sybille Geiger, scomparsa tre anni fa, ha dato a Raphael Suter, ex giornalista della Basler Zeitung e oggi direttore della fondazione che porta il nome Geiger – intitolata al nonno di Sybille, Hermann, creatore di una delle più importanti aziende farmaceutiche svizzere. Con cui Sybille volle sempre avere poco a che fare: nata nel 1930, fin da giovane seguì la passione per l’arte, spiega Suter, trasferendosi a Parigi - dove frequentava tra gli altri Giacometti e Tinguely –, specializzandosi come costumista teatrale, a Berlino e poi Lucerna, lavorando anche negli spaghetti western. Si sposa con un italiano e va a vivere in Toscana. Una vita bella ma tutto sommato normale fino a quando l’azienda di famiglia non viene rilevata da una grande multinazionale. A quel punto, Geiger si trova a essere tra le persone più ricche della Svizzera. E decide di destinare i soldi per aprire una fondazione, nel 2019, prima a Cecina, dove viveva, e poi di muoverla a Basilea. “Non siamo una galleria e non vogliamo fare quello che fanno gli altri”, spiega Raphael Suter, ripercorrendo la storia delle mostre fin qui allestite al Kbh.G: nell’essere unici c’è anche la scelta di creare un libro per ogni esposizione che viene donato ai visitatori. Ogni mostra è gratis e Suter ha grande libertà di budget. Racconta a Domus alcune delle passate esposizioni proprio scorrendo tra i libri, nei luminosi spazi di una ex fabbrica convertita in museo da Christ & Gantenbein. I temi sono tantissimi: si passa dalla fotografia alla musica all’ecologia. Ogni volta lo spazio viene completamente trasformato. Questa volta in ospedale, quasi un paradosso per un edificio che si affaccia sull’Universitätsspital.
Tornando a “The end of aging”, durante la nostra conversazione, Suter cita un passaggio dell’intervista di Ramakrishnan: “Quando siamo giovani vogliamo diventare ricchi, quando siamo ricchi vogliamo diventare giovani”. Una frase esemplare, che ricorda il lato probabilmente più distopico della ricerca dell’immortalità: quello di essere legato a doppio filo con la ricchezza. Tutti desideriamo la longevità, spesso per chi ha tutto diventa un’ossessione, come splendidamente metaforizzato dalle teste delle celebs della serie animata Futurama, che non a caso debuttò proprio a fine anni Novanta, o amplificato dalla leggenda urbana sulla testa criogenizzata di Walt Disney. La pietra filosofale della leggenda era al tempo stesso capace di tramutare qualsiasi metallo in oro e di fare da elisir da lunga vita; oggi viaggiamo verso un mondo futuro in cui l’1% è bellissimo, si nutre in maniera sublime, viene educato nelle migliori scuole e - soprattutto - vive per lunghissimo tempo. Gli altri forse no.
Ci sono voluti due anni per creare questa mostra. “Ho imparato molto”, spiega Michael Schindhelm. Stare a contatto con gli esperti della longevità lo ha convinto che nel futuro “moriremo giovani, ma dopo una lunga vita”. Dopo “The end of aging”, che chiude a luglio, debutterà al Kbh.G un’altra mostra di Schindlhelm, questa volta dedicata alla Bali post-coloniale, vista attraverso la vita di Walter Spies, pittore e musicista tedesco che ci si trasferì sul finire degli anni Venti, promuovendo per primo la cultura balinese in Occidente e modificandone a sua volta la traiettoria.
==chiusa: Covid?, nuova mostra==
==billionaires==
Houllebecq Switzerland
La sua ricerca sul covid
Creator not curator
“Staged”
Welcome back, man in the short story
The end of suffering
Fiction + non fiction = heart + brain
Catalogo free
Ma una lezione fondamentale l’aveva già imparata durante il Covid, realizzando un documentario sulla creazione del vaccino. Lì aveva visto il lavoro degli scienziati fino a quel punto alla periferia della nostra società “diventare la chiave della salvezza del nostro mondo”. La scienza era diventata rilevante in un modo che arte e cultura non erano riuscite a fare, durante la pandemia, e questa mostra è una diretta filiazione di quella presa di coscienza.~~
In collaboration with [Giulio Margheri,](https://www.linkedin.com/in/giulio-margheri-2b048b9b/?originalSubdomain=it) architect and urban researcher at [OMA](https://www.oma.com/), Luca Moscelli, founder of [Buromosa](http://buromosa.com/), a Rotterdam-based architecture practice, and [Till Zehnder](https://zehndersounds.ch/), sound designer, Schindhelm will transform KBH.G with a site-specific, immersive installation.