# Londra di notte nelle foto di Holly-Marie Cato Utilizzando il nuovo smartphone Xiaomi 14T, la fotografa Leica Holly-Marie Cato ha esplorato la sua città natale, Londra, dopo il tramonto, catturando gli eroi che fanno vivere la città di notte. *Di Alessandro Scarano* Immagini: [Foto Masterclass Xiaomi Berlino](https://eur03.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Fwe.tl%2Ft-su8ui4Pc95&data=05%7C02%7Calessandro.scarano%40domusweb.it%7Ce10a5710db45490e6b2b08dcde05db1c%7C9ed50004c543451b86f3c3671fb71c6c%7C1%7C0%7C638629364010566356%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C0%7C%7C%7C&sdata=4aqHaRFAW1goeQ5e7A7Vm2e8v9mETRO9K4IBT%2BCaq6w%3D&reserved=0) --- Nel 1959, Leica cambiò la fotografia lanciando il primo obiettivo Summilux, il più luminoso mai sviluppato dall'azienda tedesca. La sua capacità di catturare una maggiore quantità di luce in immagini ricche di dettagli rivoluzionò la fotografia in condizioni di scarsa illuminazione, permettendo ai fotografi di scattare in ambienti più bui con una resa senza precedenti. Leica divenne sinonimo di fotografia in qualsiasi condizione di luce, specialmente di notte, grazie a fotocamere leggere e compatte che eccellevano in ogni situazione di luminosità. La nuova serie di smartphone Xiaomi 14T si pone nel solco questa tradizione, grazie al suo modulo fotocamera co-ingegnerizzato con Leica. Per celebrarne il lancio sul mercato globale, Leica e Xiaomi hanno introdotto il progetto "Night Heroes", un'iniziativa globale in cui fotografi Leica in città come Vienna, Parigi e Londra sono stati invitati a catturare l'essenza della vita urbana dopo il tramonto. ### Holly-Marie Cato e gli eroi notturni di Londra Holly-Marie Cato, fotografa Leica nata e cresciuta a Londra, ha scelto la sua città natale come soggetto del progetto "Night Heroes". Nota per il suo lavoro documentaristico incentrato sugli esseri umani, Cato ha presentato le sue fotografie al Fotografiska, museo progettato da Herzog & de Meuron e costruito sul sito del celebre centro artistico occupato Tacheles, a Berlino. Cato ha condiviso il palco con i colleghi fotografi Fabien Ecochard (Parigi) e Tabea Martin (Vienna) durante una Masterclass Xiaomi supportata da Leica. "La notte è il momento in cui avvengono le storie," ha spiegato Xiaomi, presentando l'iniziativa "Night Heroes", mirata a catturare "coloro che vivono, lavorano e si divertono di notte" utilizzando il nuovo smartphone Xiaomi 14T Pro. ### L’empatia di una fotografa “Cantare gli eroi” è un tema ricorrente nel lavoro di Cato, come ha rivelato in un'intervista esclusiva con *Domus*. La fotografa proviene da un background architettonico, afferma che questa formazione è ancora presente nella sua pratica, che in nuce riguarda "documentare come le persone occupano lo spazio". La fotografia notturna, spiega Cato, è un atto di esplorazione e superamento dei limiti. Tuttavia, nonostante i potenziali rischi, non ha mai avuto problemi con i suoi soggetti. "Forse è perché non sembro una fotografa di strada tipica," ha riflettuto. "Perché sono nera e ho i capelli biondi," ha detto, riferendosi ai suoi dreadlock legati in cima alla nuca. Cato ha un dono raro, inestimabile per un fotografo documentarista: una naturale capacità di connettersi con gli altri esseri umani. Dopo pochi minuti di chiacchierata con lei, sembra di conoscerla da sempre. C’è qualcosa di particolare nel suo sorriso, nel suo sguardo e nel modo in cui si muove intorno a te. È profondamente empatica. Spiega a domus quanto sia importante per lei lasciare un impatto positivo su tutti quelli che incontra. "Le mie immagini dovrebbero sempre elevare le persone, mostrando il loro meglio," ha spiegato. Tratta spesso i suoi soggetti “come parenti” e ha l'abitudine di regalare foto stampate a chi fotografa. ### Gli eroi notturni di Londra L'approccio di Cato alla fotografia di strada è sia metodico che intuitivo. Spesso inizia fotografando da lontano per catturare l'intera scena, prima di avvicinarsi ai suoi soggetti. Il suo progetto "Night Heroes" presenta una gamma di individui che incarnano lo spirito notturno della città di Londra Dai lavoratori dei ristoranti e del personale della metropolitana, agli attori che riposano dopo una performance notturna, i suoi soggetti riflettono il tessuto diversificato della cultura notturna londinese. Un'immagine sorprendente raffigura un autista di tuk-tuk il cui volto è parzialmente riflesso nello specchietto scintillante del veicolo, con un caratteristico autobus rosso di Londra sullo sfondo. Un’altra potente fotografia ritrae una donna che lavora su un'ambulanza, mentre fa una pausa per fumare – una delle immagini più evocative della serie. "Anche quando faccio fotografia di strada, per me si tratta sempre di un progetto documentaristico," spiega Cato. Per lei è importante l'interazione che si accende con i soggetti fotografati. Pur credendo che ogni osservatore porti la propria interpretazione a una fotografia, il racconto di Cato svela un vero e proprio universo nascosto che c’è dietro alle immagini della, aggiungendo profondità e contesto, ed elevando la narrazione. "Alcuni grandi amici mi hanno incoraggiato a scrivere," ha confidato, aggiungendo che "l'arte della scrittura come fotografo è importante". Cita *Nothing Personal*, la collaborazione del 1964 tra il romanziere e attivista James Baldwin e Richard Avedon, come perfetto esempio di fotografia e scrittura che si mescolano. ### Il vantaggio dello smartphone Strumento chiave nel lavoro di Cato per questo progetto non è stata una fotocamera tradizionale, ma lo smartphone Xiaomi 14T Pro. "Usare uno smartphone è un vantaggio perché ti permette di avvicinarti. È meno intimidatorio e mette le persone a proprio agio,” spiega. C'è un elemento democratico nell'uso di un telefono per la fotografia, spiega, e questo è apprezzato da chi incontri per strada. Nonostante le condizioni di luce limitata in cui sono state scattate molte delle foto, Cato elogia le prestazioni dello Xiaomi 14T Pro, anche a livelli ISO elevati, notando i dettagli straordinari, la consistenza e la gamma dinamica nelle sue immagini. "A Berlino, non ho nemmeno portato la mia fotocamera – solo lo smartphone." ### Riscoprire Londra attraverso l’obiettivo Per Cato, usare uno smartphone ha offerto una nuova prospettiva e l'opportunità di riscoprire la sua città. "Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita," dice citando Samuel Johnson, sorridendo: difficilmente potrebbe trovare Londra noioso. Questo progetto ha rappresentato una sorta di ritorno a casa, rivelando una città leggermente diversa da quella che ricordava – e non solo perché "le vies di notte sono diverse." Tra tutte le immagini della serie "Night Heroes", alcune hanno un significato particolare, come quelle scattate al mercato del pesce di Billingsgate nel distretto di Poplar, nell'East London. Il mercato è una parte chiave della vita nell'East End, fornendo frutti di mare a tutta la città e oltre. Fondato nel 1698, è il più grande mercato ittico interno del Regno Unito, ma i suoi giorni in questa sede sono contati, con piani di trasferimento a causa del boom immobiliare nella vicina Canary Wharf. "Quella foto potrebbe essere un ricordo di qualcosa che presto scomparirà," ha detto Cato, riferendosi in particolare alla foto dei lavoratori del mercato, un luogo fondamentale nell’aggregazione del quartiere. “Senza questo progetto, forse non avrei mai pensato a Billingsgate." --- > *"Questo progetto consisteva nell'allenare l'occhio a vedere qualcosa di notevole, anche nella quotidianità – a non lasciar diventare le cose monotone."* > *"Potresti non avere una fotocamera professionale, ma hai sempre uno smartphone."* --- # London at night, in the pictures by Holly-Marie Cato Using the new Xiaomi 14T smartphone, the Leica photographer explored the city where she was born after sunset, looking for its night heroes. by Alessandro Scarano Pictures: [Foto Masterclass Xiaomi Berlino](https://eur03.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Fwe.tl%2Ft-su8ui4Pc95&data=05%7C02%7Calessandro.scarano%40domusweb.it%7Ce10a5710db45490e6b2b08dcde05db1c%7C9ed50004c543451b86f3c3671fb71c6c%7C1%7C0%7C638629364010566356%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C0%7C%7C%7C&sdata=4aqHaRFAW1goeQ5e7A7Vm2e8v9mETRO9K4IBT%2BCaq6w%3D&reserved=0) Leica launched the first Summilux lens back in 1959. It was the fastest lens the German company had ever designed: this means that it could capture more light than ever, giving photographers a better chance to shoot good pictures in dark environments. That obviously means one thing: to shoot better pictures at night – something that Leica has then been associated to, the idea of a lightweight, sleight and pocketable camera that takes great pictures almost in every possible condition. The new Xiaomi 14T smartphone lineup, powered by a camera module that brings the Leica brands on it, follows this path. To celebrate the launch of the new series, Leica and Xiaomi launched “Night Heroes”, a call to shoot that gathered Leica photographers major in cities like Vienna, Paris, and others. Leica photographer Holly-Marie Cato chose to shoot in the city she was born and raised, London. A documentary photographer with a strong commitment to humanity, Cato stepped on the stage of the Herzog & De Meuron-designed museum Fotografiska, [which raises on the remains of the glorious Tascheles art center](https://www.domusweb.it/en/architecture/2024/02/27/herzog-and-de-meurons-project-for-tacheles-in-berlin.html), to present her project, among with fellow colleagues Fabien Ecochard (Paris) and Tabea Martin (Vienna), to a selected public of media representatives from all over the world, part of the program of a Xiaomi Master Class supported by Leica. “Night is the time when human stories unfold”, Xiaomi explained, introducing the “Night Heroes” as an initiative to capture “those who live, work, and thrive at night” using the new flagship smartphone Xiaomi 14T Pro. To “champion the heroes” has been a red thread sneaking through all of her work, the photographer explained in an exclusive interview to *Domus*. Cato comes from an architectural background and, as she points out, this blueprint is still relevant in her work, that at its core is “documenting how people occupy space”. Night means exploring, discovering, pushing boundaries. But sometimes bad adventures just happen. But not to Cato. The Leica photographer explains she never had a fight or a bad adventure with the people we see in her pictures. “Maybe it’s because I don’t look like a street photographer”, she observes. “Because I’m black, and I’ve got blonde hair”, she argues, referring to the cloud of bright tied dreadlocks that surmount her head. Cato has got a unique quality, that’s really precious for documentary photographers: she just connects to people. We’ve been talking for a few minutes, and I feel like we’ve known each other since forever. That’s something she has in her smile, in the depth of her eyes, in the way she moves around you. She’s an empathetic human and she’s committed to have a positive impact on the people she meets. “My images should always be uplifting to show people at their best”, explaining that she treats everyone she meets “as I’m photographing my family” and that it’s a common practice for her to gift printed pictures after portraying people. Usually, she explains, she begins taking a picture from a distance, to capture a whole scene. This is the first step of her approach. Then she moves nearer to her subjects. In her pictures we see different kinds of night heroes: there are those who serve in restaurants or tube workers, characters of London’s incredible pub culture, and an actor resting after an overnight theatre show:; A rider, part of his face reflected in the motorbike’s mirror, a red bus on the background. The picture of a woman who works on an ambulance and is smoking a cigarette during a break, one of the strongest images of the series. “Even if I’m doing street photography, I think about it as a documentary project”, Cato explains. “People notice me and it’s an opportunity to have an interaction with them”. And while she thinks that it’s important that everyone gets their personal impression of a photograph, the storytelling she’s capable of about the pictures she took really augments their whole narrative, bringing them to another level. “Some great friends have encouaged me to write”, she confides, and she also says that “the art of writing as a photographer is important”, but also refers to the 1964 book *Nothing personal*, the collaborative exploration of American identity by writer James Baldwin and fashion photographer Richard Avedon. Using a smartphone, and not a professional camera, is an advantage, she explains, because “it lets you get closer”, and “it’s less intimidating” and “puts people at ease”, because there’s a sense of democracy with seeing someone taking a picture on a mobile phone”. At the same time, using the new Xiaomi 14T Pro contributed to have excellent images “even if sometimes there was barely any light”, and even pushing ISO to high levels (5-600), Cato says that she got “images that have detail and texture and dynamic range”. Here in Berlin, she tells me, she didn’t even bring her camera, “just the smartphone”. But using a smartphone and not a professional camera was also useful for a change of perspective. And to rediscover her city, London - “When a man is tired of London, he is tired of life”, she recites, quoting the famous line written by the great English writer Samuel Johnson. This photo project was like coming back home, and finding that home is a little bit different from the one you remembered - and not just because “the vibes at night feel different”. This is why out of the whole “Night Heroes” series, there’s one picture that brings a particular significance. It was shot at the Billingsgate Fish Market, which is located in East London and more precisely in Poplar. “It’s actually really near to where I grew up, in Limehouse”, Cato explains. The picture is a portrait of the market workers, and the photographer recalls that they gave her some mackerel as a gift, “have this for breakfast today”. Cato stresses out that the market is a real sort of community, “part of the East End Life” and crucial to all of London’s economy and food culture, being the UK’s biggest inland fish market and providing seafood to all of the city – and beyond. Established in 1698, the market should move out of London soon, because of its proximity to Canary Wharf, an area whose real estate market has been booming in the last few years. So, that picture taken by Cato could be a memory of something soon to disappear. “And if this project never happened, I would never have thought about Billingsgate”. BLOCKQUOTES 1. “This project was about training your eye to see something noteworthy, even in the everyday, even, like, don't get monotonous about it”. 2. “You might not have a professional photo camera, but you always have a smartphone”# MMNT L’ingresso è una anonima porta a vetri a pochi passi dal ponte della fermata S-Bahn di Hackescher Markt. Dietro i palazzi spunta la cima della torre di Alexanderplatz. Alexanderplatz, Berlino Est. Quanto tempo è passato dalla caduta del Muro? 35 anni e milioni di anni luce, ormai. Berlino è un’altra cosa e forse non è più neanche Berlino. Si entra con una app. Il link arriva via whatsapp, la mattina del check-in. Oltre una tenda, si svela l’ingresso. Un divano, un grande tavolo ovale blu scuro con una quantità di prese da sogno per qualsiasi digital nomad; un bancone lungo, con le capsule del caffè – però la macchinetta non è qui – e i tappi per le orecchie – in realtà il luogo è silenzioso. Dietro c’è un lavandino dove scorre acqua filtrata, i bicchieri in ordine sulle mensole. C’è una avveniristica macchinetta che mesce vino o birra, a pagamento. Poi infilerai il bicchiere direttamente nella lavastoviglie. Non c’è nessuno in questo spazio, dominato da colori pastello, accoglienti, che smorzano la durezza di Berlino fuori, i suoi cieli grigi d’inverno, il buio che arriva prestissimo o mai, le estati che stanno diventando caldissime anche qui. Probabilmente non incontrerai anima viva, entrando qui. Solo le piante a tenerti compagnia. Sembra un allestimento di uno showroom o uno di quei laboratori dove i brand tecnologici allenano il machine learning delle fotocamere degli smartphone. Tutto è automatizzato. Le camere sono poche, c’è una macchina che stampa una chiave-tessera se non vuoi usare lo smartphone per aprirle. Ci sono qr code disseminati un po’ ovunque, portano a pagine e pagine di istruzioni su un sito dedicato. C’è un qr code anche per le regole in caso d’emergenza. Tutto l’hotel si sviluppa al piano terra, le stanze non hanno finestre, il tocco del design è ovunque. È la chiave e la salvezza di questo posto: la progettazione, la scelta dei materiali, l’inserimento di una interfaccia tecnologica che elimina la presenza di personale umano e conferisce al tutto una vibe post-fallout. Questo spazio poteva essere un qualsiasi negozio in questa zona che è uno dei tanti centri di una città senza un vero centro. Da queste parti sembra di stare un po’ a Williamsburg, o a Soho. O forse in Brera. Ci sono tutti i flagship store dei marchi che piacciono ai millennial che ce l’hanno fatta, o che vogliono ancora crederci, e non solo a loro. Da Apple a Muji. Camper. And Other Stories. H&M, ma in versione studio. Camper, che qui ha anche il suo hotel. Ovviamente Nike e Adidas, come Patagonia e North Face. Ci sono brand avveniristici come Lynk & co. e Cowboy. Un bubble tea intasatissimo e la pizzeria al trancio Milano Vice. Ma c’è anche il mercatino in piazza e gli scenari para-gigeriani dell’Eschloschloraque, il bar che sigilla uno dei budelli graffitati più celebri della ex città underground per eccellenza d’Europa. Il bunker della fondazione Boros e l’attivissimo museo di arte contemporanea KW non sono lontani. Alloggiare in uno spazio simile ha una sfida soprattutto. La luce. Molte delle stanze dell’MM:NT sono cieche, non hanno una finestra. Non sono neanche grandissime. È tutto bellissimo, in una scala da stanza a Singapore o Hong Kong: quel poco spazio che c’è è sfruttato al meglio, come se questo fosse davvero la risposta di lusso ai capsule hotel. Le boiserie di legno, i pavimenti sofisticati, i lavandini, il comparto doccia-toilet con i loro colori tenui, gli arredi customizzati, gli interruttori sempre nel punto perfetto, il comodino con il piano per la ricarica wireless per il telefono, l’ampio cassettone sotto il letto della stanza small. Erich Bernard di Bwm, che ha progettato l’MM:NT insieme ad Acme. “The challenge was to ensure that guests wouldn’t feel confined or trapped despite the absence of natural light. To address this, we designed a wall next to the bed with curtains that gave the illusion of a window”. Nelle stanze dove le finestre sono presenti, invece, “~we focused on creating a sense of openness through thoughtful lighting”. Nella creazione di uno spazio di benessere, è stato importante l’impiego dei materiali, che sono tutti naturali o riciclati. Come tanti progetti di ospitalità che realizzati recentemente, anche questo è stato direttamente influenzato dall’esperienza della pandemia, spiega Bernard: le persone cercano spazi che offrano confort e flessibilità e per questo lo spazio complessivo dell’hotel è stato disegnato “per incorporare tutte le funzioni chiave di una casa”, anche su piccola scala. Da qui la zona delle sedute all’ingresso, che si trasforma in uno spazio di lavoro, e le aree cucina. L’MM:NT non è un esperimento di Adina Hotels (uno degli alberghi del gruppo è giusto di fianco), parte del gruppo australiano Tfe, un hotel-laboratorio per vocazione in una fase “beta”, fluida, sempre da ottimizzare. Nei suoi due primi mesi di vita, gli ospiti hanno soggiornato gratuitamente, in modo da raccogliere dei possibili feedback. In questo prototipo di ospitalità automatizzata non tutto funziona: la mancanza di personale umano si sente – io per esempio avrei avuto bisogno di ghiaccio per una botta che avevo preso e non c’era nessuno a cui chiedere – e non c’è un modo per lasciare il bagaglio in custodia dopo il check out (o meglio, lo puoi portare all’Adina di fianco). Gli ambienti sono sicuramente comodi e almeno all’inizio la sensazione è quella di avere una casa tutta per sé. Però non è detto che a un certo punto non scatti qualcosa di diverso, una certa inquietudine e quel qualcosa che rende un hotel unico e ce lo fa ancora preferire a un appartamento Airbnb: farsi spiegare un itinerario dal concierge, scendere a fare due chiacchiere al bancone del bar, osservare la fauna sempre stravagante che si presenta alla colazione. Insomma, manca il fattore umano. A cui forse non siamo ancora pronti a rinunciare, come alla vista sulla città. Soprattutto per un prezzo a notte dai 100 euro in su. [il target chi è] [c’è qualche quote da Acme] [aspetta risp da philippa] EMBARGO ORE 15.30 Foto Mix Flip https://we.tl/t-1yw8D4C0ym Foto 14T Series https://we.tl/t-sGfB1lIGYt # Xiaomi lancia il suo primo foldable fuori dalla Cina #### Mix Flip è ora disponibile sul mercato globale. Viene annunciato insieme alla nuova serie flagship 14T: tutti hanno comparto fotografico sviluppato con Leica e assistente AI Gemini di Google. Di Alessandro Scarano ==Gallery listicle Mix Flip== Il nome Mix per Xiaomi rievoca una storia design gloriosa e nobile per il brand tecnologico cinese, che in passato ha coinvolto Philippe Starck nella progettazione di uno dei primissimi telefoni che dicevano addio (o quasi) alla cornice esterna, quando l’iPhone aveva ancora il bottone home. Il Mi Mix era il primo della classe, un telefono con un display borderless talmente futuristico da sembrare quasi dissacrante. Correva l’anno 2016 ed è finito dritto nelle collezioni permanente di Pompidou e Design Museum. ==foto Mi Mix 2016== In concomitanza con il lancio della nuova serie 14T, Xiaomi annuncia che un dispositivo targato Mix, il Flip, presente in Cina da luglio, sarà disponibile per l’acquisto anche negli altri mercati dove il brand tecnologico cinese è presente. Il telefono è un pieghevole con fattore di forma flip, ovvero uno smartphone di dimensioni “normali” in grado di ripiegarsi su se stesso. Il primo accento posto da Xiaomi sul dispositivo, in linea con una tendenza sempre più frequente sul mercato, è la possibilità di utilizzare lo schermo esterno da 4” per un ampio numero di funzioni, in modo da non dovere aprire il dispositivo. Da chiuso, quindi, il Mix Flip è un mini-smartphone capace di molte cose e che promette di farle bene, a partire dalle chiamate, grazie a una ottimizzazione focalizzata su segnale, uscita audio, microfono. **Un “mini telefono” che si apre all’occorrenza** Sul display esterno, dotato di una risoluzione da 1.5k, ottimo refresh rate (120Hz) e alta luminosità, la customizzazione Xiaomi di Android, HyperOS, permette di utilizzare un ampio numero di app che vengono riadattate alla taglia ridotta da 4”, con una tastiera grande all’incirca come quella di uno smartphone di taglia normale (occupa quasi tutto lo schermetto) e una interazione che avviene usanddo gli stessi gesti già familiari agli utenti Android. Una esperienza quindi in piena continuità con quella degli altri smartphone del brand, che permetterà di sfruttare al massimo il dispositivo senza aprirlo e chiuderlo continuamente - del resto, perché uno dovrebbe investire su un foldable se poi deve ogni volta dispiegarne lo schermo, anche solo per usarlo come specchio? Detto ciò, Xiaomi assicura comunque 500mila piegature del dispositivo grazie alla tecnologia della cerniera che condivide con il fratello maggiore, il Mix Fold 4 (questo però non verrà lanciato sul mercato occidentale, almeno per ora). La scocca del Mix Flip è nella fibra composita di Xiaomi e telaio in alluminio. Lo smartphone impiega inoltre una combinazione di vetri super resistente Xiaomi Shield e vetro flessibile ultra sottile che avvolge lo schermo. La piattaforma hardware è un potente Snapdragon 8 di terza generazione e la batteria è di lunga durata con una capacità di quasi 4800mAh, davvero generosa per un dispositivo di questo genere. **Il comparto fotografico** Come nella serie 14T, presentata in concomitanza con il lancio del foldable, anche il Mix Flip è dotato di un comparto fotografico sviluppato in collaborazione con Leica, con cui Xiaomi ha una partnership strategica oramai da anni. Due sono le lenti, il nuovo Summilux Xiaomi x Leica e una lente Leica flottante da 47mm. Entrambe hanno un sensore da 50 megapixel. Tra le ottimizzazioni, che coinvolgono sia software sia comparto hardware, l’integrazione della piattaforma di fotografia computazionale Xiaomi Aisp, con scenari avanzati di imaging, e una nuova modalità Master Portrait, che bilancia bellezza e autenticità. Oltre alla ottimizzazione per l’uso come specchio, il Mix Flip è dotato di modalità hover, che consente di non utilizzare il treppiede e di una serie di ottimizzazioni per la “flip photography”, ovvero l’impiego del telefono non completamente aperto per creare condizioni creative di scatto impossibili con un normale smartphone. **L’alleanza con Google** Con il lancio globale del Mix Flip e della serie 14T, fa il suo debutto “out of the box” sui flagship Xiaomi il chatbot Gen-AI di Google, Gemini, con tutte le funzioni che conosciamo, in continua espansione, che portano in una nuova dimensione di funzioni quello che un tempo era l’Assistente Google. Viene inoltre introdotta la funzione cerchia e cerca, che consente di cercare su Google qualsiasi immagine compaia sul display con un semplice gesto. ==Gallery Xiaomi 14T== **La serie 14T** Oltre al pieghevole, Xiaomi ha presentato anche la sua nuova serie flagship, composta da Xiaomi 14T e 14T Pro. Questi due telefoni nascono con l’intenzione di scattare ottime immagini e mostrarle in tutta la loro qualità. Entrambi hanno display Amoled 6.67” che regola al meglio temperatura colore e luminosità grazie all’AI e un comparto fotografico sviluppato insieme a Leica e ottimizzato per la fotografia notturna, con una lente principale più luminosa (f/1.6) supportata dalla piattaforma di fotografia computazionale Aisp che assicura il 92% in più di prestazioni e sei volte la gamma dinamica rispetto ai modelli precedenti. La tripla fotocamera Leica ha 5 lunghezze focali, da 15 a 120 millimetri. Tutta la serie 14T ha una ottimizzazione sia per scattare foto, sia per riprendere video, con modalità cinematografiche e riprese 4K a 30fps HDR. Nell’app gallery sono presenti strumenti potenziati dall’AI per ritoccare immagini e video. La differenza tra 14T e 14T Pro sta nel processore e nel sensore fotografico, migliori ovviamente sul top di gamma, che ha anche ricarica wireless veloce e nelle colorazioni. Particolarmente interessante quella Lemon Green, in silicone organico e pelle vegana. Oltre agli smartphone, Xiaomi ha presentato watch e smart band rinnovati, i nuovi auricolari buds 5, oltre a un nuovo robot per pulire e ai nuovi tv. Xiaomi Mix Flip è disponibile in due colorazioni, purple e black. — # Xiaomi launches its first foldable phone outside of China **Mix Flip is now available on the global market. It is announced together with the new 14T flagship series: all equipped with a camera system developed with Leica and Google’s Gemini AI Assistant.** By Alessandro Scarano ==Gallery listicle Mix Flip== The name "Mix" for Xiaomi evokes a glorious and noble design history for the Chinese tech brand, which in the past involved Philippe Starck in the design of one of the very first phones to almost completely eliminate the outer bezel, back when the iPhone still had a home button. The Mi Mix was top of its class, a borderless display phone so futuristic it almost seemed irreverent. The year was 2016, and it ended up in the permanent collections of the Pompidou and Design Museum. ==Photo Mi Mix 2016== Alongside the launch of the new 14T series, Xiaomi announces that a device under the Mix name, the Flip, which has been available in China since July, will also be available for purchase in other markets where the Chinese tech brand operates. The phone is a foldable with a flip form factor, meaning it is a “normal” size smartphone that can fold in on itself. Xiaomi’s first highlight for this device, following an increasingly common trend in the market, is the ability to use the 4-inch outer screen for a wide range of functions, so you don’t need to open the device. When closed, the Mix Flip becomes a mini-smartphone capable of many things and promises to do them well, starting with calls, thanks to optimized signal, audio output, and microphone. **A “mini phone” that unfolds when needed** On the external display, featuring 1.5k resolution, excellent refresh rate (120Hz), and high brightness, Xiaomi’s customized Android interface, HyperOS, allows the use of a wide range of apps that are adapted to the reduced 4-inch size. The keyboard is about as big as that of a normal-sized smartphone (covering almost the entire mini screen), and interaction takes place using the same gestures already familiar to Android users. The experience is therefore in full continuity with the brand’s other smartphones, allowing maximum use of the device without constantly opening and closing it – after all, why invest in a foldable phone if you have to unfold the screen every time, even just to use it as a mirror? That said, Xiaomi guarantees 500,000 folds of the device, thanks to the hinge technology shared with its bigger brother, the Mix Fold 4 (though this one will not be launched in Western markets, at least for now). The Mix Flip’s shell is made of Xiaomi’s composite fiber and aluminum frame. The smartphone also uses a combination of ultra-resistant Xiaomi Shield glass and ultra-thin flexible glass wrapping the screen. The hardware platform is powered by the third-generation Snapdragon 8 chip, and the long-lasting battery has a capacity of nearly 4800mAh, which is very generous for a device of this kind. **The camera system** Like the 14T series, which was launched at the same time as the foldable, the Mix Flip is also equipped with a camera system developed in collaboration with Leica, with whom Xiaomi has had a strategic partnership for years. There are two lenses: the new Summilux Xiaomi x Leica and a 47mm floating Leica lens. Both come with a 50-megapixel sensor. Among the optimizations, involving both software and hardware, is the integration of Xiaomi’s computational photography platform, AISP, offering advanced imaging scenarios and a new Master Portrait mode, balancing beauty and authenticity. In addition to the optimization for use as a mirror, the Mix Flip is equipped with a hover mode, eliminating the need for a tripod, and a series of optimizations for "flip photography," allowing creative shooting conditions that are impossible with a regular smartphone. **The partnership with Google** With the global launch of the Mix Flip and the 14T series, Google’s Gen-AI chatbot, Gemini, debuts “out of the box” on Xiaomi flagships, bringing all its ever-expanding features that elevate what was once Google Assistant into a new realm of functionality. The “circle and search” feature is also introduced, allowing you to search Google for any image displayed on the screen with a simple gesture. ==Gallery Xiaomi 14T== **The 14T series** In addition to the foldable phone, Xiaomi also introduced its new flagship series, consisting of the Xiaomi 14T and 14T Pro. These two phones are designed to capture great images and display them in all their quality. Both have 6.67-inch AMOLED displays that optimize color temperature and brightness using AI, and a camera system developed with Leica, optimized for night photography, with a brighter main lens (f/1.6), supported by the Aisp computational photography platform that ensures 92% better performance and six times the dynamic range compared to previous models. The Leica triple camera system offers five focal lengths, ranging from 15mm to 120mm. The entire 14T series is optimized for both photo and video capture, featuring cinematic modes and 4K recording at 30fps with HDR. The gallery app includes AI-powered tools for editing images and videos. The difference between the 14T and 14T Pro lies in the processor and camera sensor, which are better, of course, on the top-tier model, which also offers fast wireless charging and comes in a variety of colors. Particularly interesting is the Lemon Green version, made of organic silicone and vegan leather. In addition to the smartphones, Xiaomi also presented new watches and smart bands, the new Buds 5 earphones, a new cleaning robot, and new TVs. The Xiaomi Mix Flip is available in two colors: purple and black. # I Social network che non ci sono più Ricordi Friendster? Blogspot? Flickr? E soprattutto, tu c’eri su MySpace? Torniamo alla stagione pionieristica dei social pre-Facebook, scoprendo che molti esistono ancora. Ma sono degli zombie. C’è un muro che separa le generazioni e non è quello di Berlino, ma l’amicizia con Tom. Se stai chiedendo “e ora chi è sto Tom?” probabilmente non eri su MySpace, il primo vero social network. Nel 2006, era il sito più cliccato degli Stati Uniti, più di Google e dell’altro motore di ricerca più usato in quegli anni, Yahoo – un simbolo dell’internet degli anni ’90, definitivamente surclassato negli anni ’10 da Big G. Tom era il tuo primo amico su MySpace, una creatura digitale mitologica che qualunque nuovo utente si trovava appioppato de facto all’iscrizione nella lista degli amici. La sua bio era un emoticon che strizzava l’occhiolino, ;-). Se ti stai chiedendo “cosa erano gli emoticon”, in breve erano gli emoji prima che esistessero gli emoji, non erano immaginette ma stilizzazioni di faccine create con una successione di caratteri che potevi digitare direttamente da tastiera. Tra i più famosi lo smile :-), il “just deal with it” (•*•)*  e questo decisamente immortale: ¯\_(ツ)/¯. Tom era Tom Anderson, uno dei due fondatori di MySpace. In qualche modo, Tom era un’eccezione (oltre a essere una piaga peggio di quella volta che Apple ti ha messo un disco degli U2 in automatico su iTunes). La maggior parte di noi che usavamo MySpace, avevamo nomi di totale fantasia o quasi, comunque la combinazione nome+cognome era fondamentalmente bandita. La persona più famosa di MySpace era Tila Tequila e di sicuro “Tequila” non era il suo vero cognome. In quegli anni ancora a cavallo tra i due millenni, internet era molto meno una “copia digitale” della nostra realtà. Al di là di un utilizzo base per lavorare (mail, qualche sito di informazione e così via) era soprattutto uno spazio immaginativo e fantastico, dove avere una “second life” con persone spesso geograficamente lontane. E poi era una cosa per pochi, non una rubrica telefonica globale come oggi. Le connessioni erano lente, pochissimi avevano un cellulare con accesso alla rete e comunque lo usavi per guardare le mail, non per cazzeggiare. Anche perché costava parecchio. Stare sui social era una cosa rara, MySpace al suo apice ha toccato i 75 milioni di utenti contro i 3 miliardi registrati da Facebook l’anno scorso. E MySpace era il king di un contesto tumultuoso in cui le cose cambiavano alla velocità della luce: all’epoca era facile vedere nuovi social network nascere e morire con una facilità disarmante. Si creavano profili multipli, si sgusciava fuori e dentro a un login e da un logout quasi come cambiando pelle. Era un mondo digitale per pochi e ci si divertiva parecchio. Quando uscì Facebook, molti già si chiedevano quanto sarebbe durato. E invece è ancora qui. Il divertimento forse lo è un po’ di meno. Nel frattempo, ne abbiamo sepolti molti, di social: da Livejournal a Fotolog a Friendster a Flickr a MySpace stesso. Sia chiaro, molti esistono ancora, almeno nominalmente. Si sono trasformati in qualcosa d’altro. Per loro, l’età dell’oro è finita da un pezzo. [finale concetto di zombie] Elenco Wow Una dating app Friendster Myspace Livejournal Flickr Fotolog Blogspot ICQ Atlantide Duepuntozero # Cos’è questo materiale un po’ alluminio, un po’ ceramica, di cui molti parlano Il ceraluminum è un nuovo materiale frutto di 4 anni di ricerche che Asus ha presentato non solo alle fiere tecnologiche, ma anche al Design Festival di Londra. Ce lo racconta il Chief Design Officer Mitch Yang. Opaco. Minimale. Solido. Rigido. Simile alla pietra. Piacevole al tatto, non certo freddo come l’alluminio. Sono diverse le sensazioni che si provano portando sotto braccio - e perché no carezzando - uno dei nuovi laptop Zenbook di Asus con scocca in ceraluminum, un nuovo materiale facilmente riciclabile, resistente ai graffi in una scala che sta tra il vetro e il diamante e disponibile per ora in due colori, grigio e bianco (“Zumaia Grey” e “Scandinavian White”, nella nomenclatura composta che piace tanto ai brand tecnologici). Ci sono voluti quattro anni per svilupparlo, spiega a *Domus* il capo design di Asus, Mitch Yang. Il ceraluminum è parte dell’intensa attività di ricerca dell’azienda tecnologica taiwanese, tra le Most Admired di Fortune e arcinota per i suoi computer, soprattutto quelli portatili, di cui Zenbook è la linea di punta. Zenbook è zen e la natura è un riferimento fondamentale per Asus, spiega Yang. In passato, l’azienda ha sperimentato con materiali organici, ricorda il capo design: la pelle, per esempio, ma anche il bambù (sì, Asus aveva fatto un computer di bambù). Il ceraluminum, più che una sperimentazione, sembra un futuro altamente probabile, da quello che racconta Yang, che traccia un parallelo tra la “calma” che lo Zenbook vuole ispirare e questo nuovo materiale in cui si uniscono le qualità del metallo con quelle di una superficie ceramizzata. Spesso sottovalutiamo il design della tecnologia. Troviamo più facilmente nobile il progetto di una sedia che quello di uno smartphone o un paio di cuffie. Succede anche che diamo il giusto peso ai device che ci hanno cambiato la vita solo guardando indietro nel tempo. E allora ci accorgiamo che la Playstation del 1994 o una radio di Dieter Rams sono a tutti gli effetti delle icone. “Design you can feel” è la mostra che ha messo il ceraluminum di Asus al centro di un racconto di design per raccontarne le caratteristiche, affiancandolo a progetti di ricerca e aprendo ad altri l’utilizzo del materiale. Parte del programma del Design Festival di Londra, l’esposizione ha mostrato le potenzialità del nuovo materiale, che per l’occasione è stato utilizzato anche per la realizzazione di due progetti non di Asus: una serie di sedute dei coreani Niceworkshop, famosi per i loro arredi in metallo, e un concept di assistente AI portatile disegnato da Future Facility, lo spin-off dello studio di industrial design Industry Facility specializzato in dispositivi tecnologici. “Innovare i computer portatili è una grande sfida”, dice Yang, che incontro in un ufficio del grande spazio di Shoreditch che ospita la mostra, riferendosi al fatto che il fattore di forma del laptop è pressoché identico dagli inizi e dall’idea di “bento box” di Richard Sapper poco è cambiato. Ma qualcosa si sta muovendo e l’impiego sempre più massiccio dell’Intelligenza Artificiale da parte di chi i computer li usa sicuramente avrà delle conseguenze, spiega il Cdo. La forma seguirà l’interfaccia. Possiamo forse già ipotizzare dei computer con cui interagire parlando, più che con la tastiera? “L’integrazione dell’AI cambia l’approccio alla creazione della tecnologia” spiega Yang. Nelle sue parole traspare l’entusiasmo di chi sta presentando il frutto di anni di lavoro, eppure non può fare a meno di guardare al domani. Un altro aspetto di cambiamento investirà sicuramente lo schermo… anzi gli schermi. Lo Zenbook Duo è il dispositivo con cui Asus sta sperimentando l’utilizzo di display multipli in un computer portatile. Dilagando nello spazio dedicato alla tastiera, come nel primo modello, o più recentemente con la proposta di un computer portatile che all’occorrenza può dispiegare due schermi, uno sopra l’altro. Creato soprattutto per chi lavora con video e immagini, il Duo è un laptop che non passa inosservato. Unisce l’aspetto emozionale e quello funzionale, due aspetti fondamentali del design di Asus, spiega Yang. “Il laptop è un gadget, ma come lo rendi sexy?”, interviene Carolin Lin, Senior Global Product Marketing Manager. Insieme a Yang, mi mostra una serie di scocche Zenbook in ceraluminum. Alcune sono riuscite, altre sono degli interessanti fallimenti. Il processo per creare il nuovo materiale è stato sviluppato nel corso di quattro anni di prove ed errori, per raggiungere un risultato ottimale di colorazione, texture e durezza. Il processo è semplice, almeno a parole: il metallo viene immerso in una soluzione composta per il 95% di acqua e poi trasformato usando scariche elettriche. Ne risulta un materiale facilmente riciclabile e dai colori naturali - dimenticatevi le colorazioni pazzerelle che negli ultimi anni sono state così di moda. Il ceraluminum è un pensiero di ritorno all’essenziale. Allo zen. Yang e Lin accennano anche alla possibilità, un giorno, di creare dispositivi personalizzati, uno diverso dall’altro. Ho poggiato di fianco alle scocche la mia borsa Freitag e il riferimento sembra lampante. Una finestra sul futuro, certo, ma Yang, interpretando in pieno una certa filosofia orientale del design, sicuramente zen ma anche concreta, accompagna l’entusiasmo per una innovazione di scenario con la cura del dettaglio che è possibile raggiungere utilizzando il ceraluminum. Mostra a *Domus* la scocca opaca e leggera dei nuovi Zenbook e si sofferma sulla griglia dell’altoparlante, creata con doppio livello, quello superiore a nido d’ape, in modo da bloccare la polvere ed eventuali schizzi. Questa attenzione è importante, spiega. Perché non si innova solo cambiando il fattore di forma. Ma anche con l’attenzione ai dettagli. Foto Zenbook S14 e S16 Zenbook Duo Computer bambù Foto Susa Foto Niceworkshop # Intro AI L’idea che le macchine possano essere intelligenti è tutt’altro che nuova. Va indietro almeno agli antichi greci. Il mito di Talos racconta di un gigante di bronzo creato per difendere l’isola di Creta: una fantasia, certo, che ci ricorda però che i robot sono tra di noi da molto prima che iniziassimo a chiamarli così - fu un dramma utopistico ceco a introdurre il termine In Europa all’inizio del secolo scorso. Il dispositivo di Antichera, dal nome dell’isola in cui è stato trovato, non era invece una fantasia: è il primo esempio di computer analogico, utilizzato soprattutto per predire fenomeni astronomici. Risale a più di due millenni fa e non aveva certo la potenza di calcolo di un iPhone. Eppure, difficile dire che non fosse in qualche modo una “intelligenza artificiale”. Oggi, indichiamo come Intelligenza Artificiale quel “campo della scienza informatica che si occupa della creazione di sistemi capaci di eseguire compiti che normalmente richiederebbero l'intelligenza umana”. Questi compiti includono: riconoscimento vocale e delle immagini, “la comprensione del linguaggio naturale, la risoluzione di problemi complessi e l'apprendimento automatico”. La definizione arriva da ChatGpt, ovvero lo strumento che associamo per convenzione all’idea di “AI” in questi giorni, basato sugli LLM, i “large Language models”, ChatGpt è capace di interagire via chatbot e di creare contenuti. Alle volte sbaglia, altre inventa, proprio come gli umani. Lanciato a fine del 2022, ha di fatto reso le AI un concetto di massa e utilizzabile da tutti per gli scopi più diversi, aprendo la strada a una diffusione sempre più ampia di sistemi di generazione automatizzata di testo, immagine e video. Le macchine possono pensare? Nel 1950, il matematico Alan Touring torna a una delle questioni in realtà più antiche del pensiero occidentale – ci si era speso secoli addietro anche Cartesio, padre del pensiero moderno e del cogito ergo sum. La novità introdotta da Touring è quella di un criterio oggettivo per determinare quando una macchina è realmente in grado di pensare. Lo racconta il pensatore americano Ray Kurzweil in *The singularity is nearer*, testo recente che fa da seguito ideale a un libro seminale di vent’anni fa dal titolo similissimo. All’epoca l’AI era un tema per pochi, ora è al centro del dibattito. Kurzweil non si è mosso dalle sue posizioni: ha sempre indicato nel 2029 il momento in cui l’intelligenza artificiale raggiungerà quella umana, e nel 2045 il momento in cui le due intelligenze si fonderanno. È la “singolarità”, un’idea tutt’altro che nuova: l’abbiamo vista in una delle saghe di fantascienza più celebri di sempre, Terminator. E il momento in cui Skynet raggiunge la singolarità è… il 29 agosto di quest’anno. Vedremo se James Cameron ci aveva preso. Nell’attesa, abbiamo raccolto il meglio di quanto apparso su *Domus* sul tema dell’AI negli ultimi anni. # 30 anni di Fabrica: come i soldi hanno liberato la creatività dai soldi Tadao Ando, Oliviero Toscani, Carlos Casas e ovviamente Luciano Benetton sono soltanto alcuni dei nomi coinvolti nell’anti-scuola che abbiamo visitato in occasione del suo anniversario. ==Ah, poteva esserci anche Fidel Castro==. E invece… Di Alessandro Scarano FOTO: https://we.tl/t-K3JKvstLGR 1. ~~Quanti fabbricanti~~ 2. ~~C’è Fabrica su archivio di Domus?~~ 3. Il viaggio in bus 4. I pillari 5. Come I fabricanti vengono scelti 6. ~~Progetto tadao domus?~~ 7. Cosa faceva Fabrica (funzionava come agenzia etc) 8. 3. ~~Petri Saarikko e Sasha Huber~~ 9. ~~Progetto, “un luogo magico e suggestivo”, mettere le idee al potere, “la formula è semplice e complessa al tempo stesso”, si impara facendo, Toscani: “lavoriamo soltanto facendo le cose che vanno bene a noi”, no compromesso, no legata a logiche del denaro~~ ![](image.png) Un telefono fisso di quelli con i pulsanti e un vecchio cellulare Nokia con la tastiera tipo Blackberry; teste d’aglio lasciate su un tavolo, un uccello che ci si posa sopra. Dei cracker Ritz. Insetti. Come memorie in cui si infiltra l’irrazionale, poi ridipinte a olio e presentate racchiuse in cornici che sembrano uscite da casa dei nonni, recuperate a un mercatino: sono le immagini di “Balcony, Backyard” di Annalise Kamegawa, una “installazione sculturale basata sulla pittura che racconta una famiglia dopo la crisi del 2008 negli Stati Uniti”. “A perfect house” di Alberto Allegretti racconta invece un’altra famiglia, anzi altre famiglie, quelle ricreate nelle immagini dalle intelligenze artificiali generative di massa. In una ideale casa ricreata un po’ alla *Dogville*, con il nastro bianco steso a terra, si succedono finte foto in cui vecchi pregiudizi vengono rimasticati dalle AI, che dispongono i posti a tavola secondo le norme patriarcali e che non riescono a immaginare una persona che lava i piatti che non sia donna, e probabilmente scura di pelle. Poco lontano, all’aperto, “Closed set” di Aindriú Ó'Deasún sovrappone alle immagini di daini, rappresentati con sculture in cui “appaiono immobili, quasi congelati”, un sonoro di frammenti tratti da porno gay. Si passa di qui per arrivare alla coloratissima casa-capanno di Davide Balda, la cui ricerca indaga le possibilità di recupero degli abiti. “Telare la materia” presenta in particolare il technosoil, un suolo per coltivare creato con gli scarti della linea Green B di Benetton. Ma il raggio di possibilità è ben più ampio, e Balda mostra a *Domus* declinazioni come feltro e addirittura un materiale per costruzioni creato sempre a partire dagli scarti tessili. Arte, musica, cinema e racconti hanno riverberato per le sale e i corridoi e i giardini della creatura architettonica creata da Tadao Ando sul finire degli anni Novanta “per stimolare l’incontro tra persone, storia e natura”: l’occasione, i suoi trent’anni. Quelli di Fabrica, che è un luogo fuori dal normale, un’eccellenza italiana della creatività, un punto di riferimento internazionale e “quella che vuole essere tutto tranne una scuola”, come la definisce Carlos Casas, program director ed ex-fabricante lui stesso – la sua frequentazione risale alla fine del secolo scorso, mentre Kamegawa, Allegretti e Ó'Deasún sono tutti allievi alla fine del loro semestre; Balda invece ha avuto la possibilità di continuare qui la sua ricerca, complice l’affinità elettiva con la moda e la filiera del gruppo Benetton. Fabrica nasce negli anni 90, sull’onda dell’incredibile successo delle campagne di Toscani per Benetton. Oliviero il creativo convince Luciano l’imprenditore a fare una scommessa all-in, creando da zero qualcosa di unico, un contesto capace di cambiare la traiettoria della vita di centinaia di persone. ~~Carlos Casas racconta che nei suoi trent’anni Fabrica è stata tante cose. Un luogo di apprendimento, di sperimentazione, una residenza per artisti.~~ In una nazione come l’Italia dove si è ossificato il pregiudizio che l’anzianità e l’esperienza siano i valori da privilegiare, e dove nelle aziende a trazioni familiari il cognome è sempre un privilegio, Fabrica è stato quel contesto dove le carte sono state sparigliate, dando a giovani semisconosciuti fiducia e responsabilità. Casas ricorda quando aveva neanche 24 anni ed era stato coinvolto nel progetto di un ristorante ibrido a Venezia, che avrebbe dovuto aprire nel 2001. Il progetto voleva riempire i tempi vuoti d’uso di un ristorante trasformandolo in un luogo sempre vivo e al tempo stesso suscitare delle riflessioni sul turismo di massa. Una occasione irripetibile per un ragazzo di quell’età, e cosa vuoi fare?, “Ti metti a lavorare come un matto”, sorride lui. Il Colors Restaurant – ristorante, cinema, teatro, museo e anche altro – non è stato mai costruito, ma ben rappresenta l’approccio proprio di Fabrica di “mettere le idee al potere”, come racconta Loredana Mascheroni su *Domus* 815, supportata dalle foto di Ramak Fazel. In quell’articolo di fine anni Novanta si racconta la Fabrica dei primi anni, l’ambizione di “imparare facendo” e quel momento di creatività che la generosità di Benetton permetteva di mettere al riparo dai compromessi che il denaro porta quasi sempre con sé. “Lavoriamo soltanto facendo le cose che vanno bene a noi”, affermava perentorio come solo lui sa essere Oliviero Toscani. Qualche anno prima, Toscani aveva detto che avrebbe voluto Fidel Castro, “Maestro della Rivoluzione”, a dirigere Fabrica. I “pillari” attorno a cui si è sviluppata Fabrica, come li definisce Casas nel suo italiano-pidgin che restituisce molto dell’aria di continuo melting pot che si respira qui, sono la multidisciplinarità, una di quelle parole magiche dell’istruzione in campo creativo che però qui si è sviluppata in modo naturale, in bilanciamento tra un certo spirito anarchico e quella necessità del dovere restituire che pone un netto confine tra chi fa e chi semplicemente studia; un empowerment personale, attraverso l’esposizione a stimoli e maestri che difficilmente si incontrano altrove e con questa intensità; e un continuo riferimento al sociale e alla società. Un punto cruciale questo, anche perché è stata la chiave di volta delle campagne di Toscani per Benetton. C’è di più: quello che si respira qui dentro è ancora un certo benessere che si fa fatica a non ricollegare proprio agli anni Novanta, un agio economico che altrove è difficile vedere, una generosità nei confronti del talento che oggi ci sembra straordinaria. E sarà l’impressione mia che arrivo da quartieri ultragentrificati e comunque ad alta densità, ma c’è anche tanto spazio qui a Fabrica: l’astronave di Tadao Ando accoglie le generazioni di fabricanti in percorsi talvolta lunghissimi – si cammina tanto qui a Fabrica, ribadirà Casas – e spesso solitari. D’altro canto, tutto questo vuoto, non può che risuonare anche per quel che effettivamente è: ovvero, vuoto. E i giorni in cui si festeggia Fabrica sono anche quelli in cui Benetton ha annunciato la sua più grande debacle finanziaria di sempre, con un gigantesco buco da 100 milioni. “La mia vita è cominciata quando sono venuta qui”, racconta ==Sasha Huber==, che a Fabrica ha trovato anche il compagno di vita e di lavoro ==Petri Saarikko== e con cui sono tornati per portare il loro workshop sulla memoria orale, parte del più ampio progetto Kinship che ha coinvolto i fabricanti di questo semestre. Ricordano l’assegnazione per un lavoro futuristico sugli store Benetton che doveva connetterli come un social network anni prima che esistesse Facebook, e di quando erano volati a New York per incontrare Massimo Vignelli, che all’epoca ==si occupava dell’identità visuale del marchio==, per discuterne. “Un luogo che crede in te”, come lo definisce Casas. Dando fiducia, anche di sbagliare. “È meraviglioso fare un errore”, si unisce il designer, curatore, artista brasiliano ed ex fabricante Batman Zavarese, che sottolinea l’importanza dell’ “imparare facendo” e rievoca momenti di fuoco e fiamme con Oliviero Toscani, la cui presenza aleggia ancora forte nei corridoi e nelle sale: lo accompagnano memorie di scontri accesissimi e cosmiche turbolenze, insieme a un diffuso sentimento di riconoscenza. Con la sensibilità dell’oggi, quelle modalità sarebbero stigmatizzate. Chi ha affrontato quelle tempeste negli anni del proprio Bildungsroman, tuttavia, sembra averne tratto una lezione per dare una svolta alla propria vita, invece che fare dei video in lacrime su Tiktok come ti aspetteresti da un Gen Z. Tadao Ando era volato in Veneto per dire di no a Luciano Benetton, o almeno così si dice. Tornò in Giappone con la commissione di progettare Fabrica. C’era questa villa veneta atipica non lontana da Treviso, con il corpo principale piccolo se confrontato alle barchese. Era stata distrutta da un incendio e Ando la ristrutturò trattando con delicatezza le preesistenze e plasmando un’arca spaziale che si adagia nella natura circostante, una scultura di cemento con un respiro zen che pervade le ampie sale come i corridoi e dove il tema dell’ovale è ricorrente, nella biblioteca a spirale come nella spaziosa agorà all’aperto. Un luogo “magico e suggestivo”, lo definiva *Domus* nel ’99. Oggi questi spazi ospitano, oltre a Fabrica, alcuni reparti di Benetton e la collezione Imago Mundi, un progetto artistico iniziato da Luciano Benetton e basato su piccole immagini quadrate realizzate da artisti di tutto il mondo. Si era mosso qui il gruppo di lavoro di *Colors*, la rivista di Benetton “sul resto del mondo” creata da Toscani con il grafico americano Tibor Kalman e considerata nei suoi anni d’oro tra le migliori pubblicazioni al mondo. Ed era qui Fabrica Cinema, che nel corso della sua esistenza ha prodotto documentari, cortometraggi e lungometraggi, tra cui *No Man’s Land*, premio Oscar nel 2022. Nell’ufficio di Casas, dopo un lungo giro – “A Fabrica si cammina tanto”, commenta con il suo sorriso sornione – sfogliamo le riviste e parliamo del passato, del presente e del futuro. Nata in una congiuntura economica e sociale incredibile, spinta dall’energia degli anni Novanta, Fabrica è un patrimonio culturale di un’Italia che parla con il resto del mondo, al tempo stesso è legata con le sorti economiche di Benetton (e dei Benetton). Un legame a doppio filo: riusciresti mai a immaginare Benetton senza tutto questo? Ma quel che sarà di questo posto è ovviamente una domanda aperta. Con un rammarico. “Mi spiace che tutto questo non sia stato contagioso”, che altre grandi aziende non abbiano creato posti simili, dice Casas. Fabrica resterà l’espressione di un momento unico di un’azienda altrettanto unica. Intanto, un nuovo ciclo sta per cominciare e si aspetta l’ingresso del fabricante numero 800, ==che ha già un nome e cognome==. Buon compleanno, Fabrica. ==devi inserire qualcosa sull’outlook economico di Benetton== [il progetto ] [I pillari] **Kinship** Lectures, performance Concetti chiave: 1. Tutto tranne che una scuola 2. Multidisciplinarità 3. Società 4. Empowerment 5. Benetton 6. Toscani odi et amo 7. Connessione emotiva, “my life started when i came here” 8. Dare fiducia, anche di sbagliare La villa e Tadao Ando Inaugurazione 2000 (sovrintendenza etc) Barchese, villa anomala distrutta, ristrutturazione più nuovi elementi L’agorà e la biblioteca 10k libri (Fabrica, Archivio Benetton, Fondazione Benetton), l’ovale Colors Fabrica cinema Batman: - very hard (Toscani) - I learned things i used later - Learning by doing - “Its amazing to do a mistake” 2 designer - vignelli - Learning by doing (anche Casas, con progetto ristorante a Venezia) Carlos 1998 - “Quando sei a Fabrica cammini un sacco” - “Ando diceva che deve essere una scultura dove le persone si incontrano” - Ora c’è più una idea di resistenza artistica - Ristorante ibrido, quando aveva 22-3 anni, “ti metti a lavorare come un matto”, fiera dei prodotti funerari di Vicenza - “Un luogo che crede in te” - C’è gente che fa il postino, il commercialista ~==Cosa ne sarà di questo posto?==~ Il loro talento, una volta entrati, veniva fatto esplodere a contatto con la multidisciplinarità e un contesto formativo tutto tranne che ortodosso. Tanti entravano con studi di grafica, # Estate italiana: il mito di quella anni 90, in dieci “cose” che la raccontano Le ultime estati di un millennio. Difficilmente avresti pensato che erano davvero la fine di un’epoca. Gli anni Novanta sono stati la coda critica degli Ottanta, quelli di una sofferenza intelligente che trovavi sotto la pelle dell’edonismo e dell’esagerazione del decennio precedente. Gli anni in cui l’underground è diventato mainstream (vedi il grunge), in cui l’elettronica consolida una presenza nelle nostre vite (anche nella musica), gli anni della Guerra del Golfo (la prima), delle bolle delle dotcom. Per gli italiani sono le estati dei mondiali di Baggio, in patria e poi negli Usa soprattutto, delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, delle lunghe cronache di Mani Pulite che sembrava non fermarsi mai, dell’Avvocato che si tuffa dalla barca e Berlusconi che si è tuffato in politica. Sono estati di un Occidente che crede nella crescita infinita, in cui se vuoi puoi farti rintracciare grazie ai cellulari che sono diventati una cosa che hanno tutti, anche i ragazzi; ma se lo tieni spento non è poi così strano. Nessuno parla ancora di “disconnessione”. Il lavoro te lo sei lasciato a casa in città, la coda al casello è sempre quella. Un’estate barbarica come quella del 2001, segnata dalle violenze del G8 di Genova prima e dalla caduta delle Torri di New York poi, è dietro l’angolo. Il mondo non sarà più un posto così facile, ma nessuno lo può immaginare. Come nessuno può immaginare che sempre nel 2001 l’iPod aprirà di fatto le porte al mondo del nuovo millennio, quello in cui c’è più di te dentro al tuo dispositivo che in te stesso, ancora un po’. Ma c’è ancora tempo, le auto elettriche restano un sogno della fantascienza e i voli low cost sono una grande novità, il biglietto te lo stampi e forse il posto non è neanche assegnato. Soprattutto, l’unico modo per socializzare è uscire di casa. La casa è un’oasi di pace. La tv ha ancora un ruolo fondamentale. Ci sono degli orribili show, delle serie che non hanno niente a che vedere con quelle che guardiamo ora e ti segni in agenda (di carta) quando c’è un bel film la sera. Di notte fonda ci sono le repliche di X-Files e Star Trek e sulle emittenti private programmini hard e televendite. Le fotografie erano su pellicola, i tuoi genitori organizzavano sessioni di diapo delle vacanze che estenuavano i loro amici. Tu più banalmente mandavi una cartolina, magari un po’ osé, così mettevi in imbarazzo gli amici. In motorino si girava con il casco e in macchina con la cintura allacciata, ma era una cosa nuova, un po’ come gli skate e i roller che vedevi scorrere in città. Eri uscito vivo dagli anni Ottanta, alla faccia della canzone degli Afterhours. E sembrava che tutto potesse andare solo meglio. # Abbiamo provato lo smartphone che fa i ritratti come lo Studio Harcourt Il nuovo Honor 200 Pro ha un sistema di intelligenza artificiale che ricrea l’estetica unica dello studio ritrattistico parigino. Ecco come è stato creato e quali sono i risultati. Di Redazione Domus foto: [FOTO HONOR GALLERY ALTA](https://we.tl/t-4ayRf9RU0f) Studio Harcourt è uno studio fotografico fondato a Parigi nel 1934. I suoi ritratti in bianco e nero hanno fatto storia. Per la particolare tecnica impiegata, quel chiaroscuro che è diventato un marchio di fabbrica. E per le personalità ritratte, da Marlene Dietrich a Edith Piaf, da Jean Cocteau a Roger Federer. Un simbolo di eleganza e stile fuori dal tempo. Oggi quegli scatti unici diventano alla portata di tutti. Succede grazie al marchio globale di tecnologia Honor e alla nuova serie Honor 200 di smartphone, pensati proprio per la fotografia ritrattistica. Così, l’Honor 200 Pro non ha soltanto una fotocamera da 50MP ottimizzata per catturare ritratti con attenzione particolare ai dettagli anche in condizioni di illuminazione difficili, ma anche il motore AI Portrait, co-ingegnerizzato con Studio Harcourt, sfrutta l'esperienza dello studio nell'uso della luce e delle ombre, integrandola con le capacità di intelligenza artificiale di Honor. Per sviluppare il motore, il team di Honor ha lavorato con Studio Harcourt per oltre 400 giorni, analizzando migliaia di scenari e set di dati, al fine di garantire che l'essenza della fotografia ritrattistica di Harcourt potesse essere catturata sugli smartphone. Abbiamo avuto la possibilità di provare l’Honor 200 Pro in studio e per le strade di Parigi: le foto e il reel che vedete sono il risultato di questa esperienza. # Stiga: come si progetta il giardinaggio Abbiamo visitato gli hq dell’azienda di utensili da giardino per capire come vengono progettati, in un momento in cui il giardinaggio “is blooming”, sta sbocciando, come racconta Stiga. Di alessandro Scarano foto: ~[SwissTransfer - Send large files securely and free of charge](https://www.swisstransfer.com/d/2ece4ecd-872f-4328-878e-078696d0a061)~ Nel pieno della porzione trevigiana della campagna veneta, due robot tagliaerba si inseguono senza mai raggiungersi, tracciando con lenta costanza traiettorie che appariranno forse casuali all’occhio umano, lasciando perentoriamente dietro di sé scie d’erba rasate alla perfezione nel grande prato inequivocabilmente perfetto (questo anche a occhio umano) che accoglie l’ingresso ai quartieri generali di Stiga, azienda leader nella cura del giardino. È un edificio moderno, con grandi vetrate e pochi anni di vita. Risale all’anno prima della sua edificazione, al 2017 la scelta di cambiare nome dell’azienda, lasciando indietro quello vecchio, Global Garden Products, trasformandosi in Stiga Group, portando così in evidenza il brand premium del gruppo; fondato in Svezia dal visionario imprenditore Stig Hjelmquist, Stiga quest’anno compie novant’anni. Sul retro del grande edificio, che si affaccia su una collina dove ulteriori robot tagliaerba compiono i loro giri, si arrampica sulla parete l’uva americana nella brutta stagione, il gelsomino dalla primavera. Durante la pausa pranzo riecheggia il suono del ping pong, come una eco lontana di quando Stiga, prima dello smembramento e dell’acquisizione, era un’azienda eclettica nell’outdoor e produceva le racchette da tennis tavolo per cui tanti conoscono il brand (oggi sotto il nome di Stiga Group, che non c’entra niente con le macchine da giardinaggio). Nella grande sede di Castelfranco Veneto, la principale del gruppo - le altre due sono in Slovacchia e in Cina - lavorano circa 800 persone. Di oltre 30mila metri quadrati, fatta eccezione per i 5 dedicati agli uffici e quelli del reparto di ricerca e sviluppo, il resto è fabbrica. E che fabbrica. Ogni cosa è automatizzata, qui. Un sofisticato sistema che viaggia attraverso la comunicazione wireless riscrive in tempo reale i settaggi degli avvitatori, rendendo agile e modulare quello che viene presentato come un “impianto flessibile con struttura flessibile”. Questo permette di sfalsare la produzione in base alle richieste stagionali - del resto i giardini seguono i cicli della natura e Stiga ovviamente lo fa con loro; da Castelfranco escono i prodotti high tech del gruppo, la media alta gamma. Una parte dell’impianto è dedicata alle batterie, fondamentale componente dei robot autonomi, i “roomba dei prati” di cui Stiga è uno dei produttori più importanti del pianeta. Le tecnologie della batteria e dell’automazione sono qui fondamentali, proprio come in una azienda di auto elettriche o di droni. Mettere piede nello stabilimento di Castelfranco è come entrare in uno di quei luoghi del futuro che non hanno bisogno di orpelli futuribili per essere già più avanti di tutti. Predominano invece la geometria, l’automazione e il controllo. E imperversa il minimalismo, chiara eredità del dna scandinavo dell’azienda. Ogni cosa è pulita, precisa, ordinata. Qui vengono prodotti i trattori e i tosaerba. E nelle stanze della ricerca e sviluppo, i prodotti di Stiga vengono maltrattati in ogni modo possibile, i robottini soprattutto, torturati fino allo stremo, ribaltati, fatti saltare, anche crivellati di simil proiettili, per saggiarne la robustezza. La natura sarà forse più dolce con loro, ma non di tanto. Ogni tanto si intravvede qualcuno della squadra r&d che prende appunti su un computer, poi scompare dietro un angolo. Camminando qui, si incontrano carrelli dove sono ordinatamente infilate le scocche gialle dei robot, come se fossero i vassoi di una mensa, mentre sui muri di tutta l’azienda si leggono inspirational quotes da Albert Einstein a Steve Jobs. In una grande sala riunioni al piano terra, luminosa e affacciata sul prato (con immancabili robot tagliaerba che sfilano al di là della vetrata), incontro James Cameron, Design and Innovation Director di Stiga, un ragazzone scozzese con una bella esperienza alle spalle che ha le idee precise e quadrate come il solido disegno della sua mascella. Innovazione, leggerezza e facilità d’uso sono gli elementi chiave che ha portato nel design di Stiga, oltre ovviamente a un riferimento costante ai valori del design scandinavo. Quando gli chiedo quali sono i progetti che l’hanno influenzato, non pesca da qualche edizione limitata di Memphis, ma afferma con sincera ammirazione “certi utensili da cucina”. Con lui parliamo a lungo di come l’elettrificazione sta radicalmente cambiando il mondo del giardinaggio, permettendo di costruire attrezzi automatizzati sempre più leggeri e puliti, che non hanno bisogno di carburante ma vanno per questo ripensati; Cameron è un amante dei dettagli e della funzionalità: un car designer vagheggerebbe sulla potenziale liberazione di certi vincoli delle carrozzerie negli EV, lui ti spiega nel dettaglio, passaggio dopo passaggio, come un handheld a batteria vada ribilanciato. Suo, tra l’altro, il design di uno dei prodotti più affascinanti di Stiga, il trattorino Gyro, che ribilancia la presenza umana su un veicolo di questo genere in una maniera che pare a dir poco futuribile. “Sono qui da 5 anni e la cosa fondamentale è stata quella di connettere il design, l’ingegnerizzazione e tutto quanto il resto”, spiega lui. Che ha un messaggio chiaro: il giardinaggio “is blooming”, sta fiorendo. E post Covid coinvolge una fetta sempre più grande di giovani che hanno riscoperto la natura. Progettare per loro dispositivi sempre più efficienti, accessibili e sicuri oggi è fondamentale. # Dyson Ontrac 1. **Ascolta intervista James** Dyson Zone: eliminare l’inquinamento London: Music and Fashion, but we add technologu Dyson > mastered aeroacoustic (every product makes noise and you learn to master it) Zona > electroacoustic Tre settori: vacuum cleaner, purifier, beauty Strong engineering approach “We begin focusing on a problem, not a product”, James Dyson “Too much marketing language” 250mln investment Born on the failure of the car (Hullavington) Active noise + passive noise cancellation Confort/cushioning Battery Craftsmanship/customization CMF Points + 8 active noise cancelling microphones sense sounds 384,000 times a second Enhanced sound range 6khz-21khz Up to 2 weeks of battery life Joystick Head detect Points - No lossless No dolby atmos No multipoint JAKE Speakers haven’t changed in 50, maybe, 80 years, “opportunity” - like hairdryer had not changed. “There’s opportunities for moving forward” Target is “everyone”, reference: Walkman “people were really proud to say I have a walkman” “We don’t like the oval shape, because the consistency of the insulation arot it and also the way it fits on your head”, and “it looks really nice of you want to move away from what everybody else is doing” “I find it confusing when you go to the electronics store and you see all these black headphones” ~“We hired one or two audio engineers, but we like to learn by ourselves”~ “The Zone had two motors inside, so we searched very hard to find a very compact high capacity battery” “We want to show how the product is, the good part of the components are laid out, and the minimal amount of material around it” “We’ve always taken the function of a product and try to make it interesting and magical” ~“Design and customisation and provide very high quality music to people all at the same time”~ --- Punti forti: Cancellazione del rumore (tela bianca artista) Cancellazione passiva, frequenze medio alte e alte (lungo studio su padiglioni e archetto) Cancellazione attiva (ascolta rumore lo copia e lo annulla) con microfoni interni ed esterni tramite algoritmo Cancellazione totale di 40 decibel Da 6hz a 2khz Dyson enhanced audio range Batterie nell’archetto CMF, colori materiali finiture, grande attenzioni, per esempio rimozione padiglioni Durabilità, resistenza acqua etc Batteria pazzesca Gioco di parole ontrac (siamo on track rispetto alle tendenze, ma anche track=musica) Case importante # Le funzioni AI di cui abbiamo veramente bisogno sui nostri smartphone Traduzione simultanea, creazione di immagini da una riga di testo e molto altro: queste sono le nuove funzioni degli smartphone. Ma ci bastano? Probabilmente no. Ecco le nostre proposte. Di Redazione Domus Lo smartphone vive di grandi entusiasmi, che spesso tracimano in strategie di marketing più che veri e propri vantaggi di funzionalità. C’è stato il periodo della fotografia notturna e quello dei pieghevoli, o gli anni in cui avere cornici sempre più sottili intorno allo schermo sembrava questione di vita o di morte. Tutto questo succedeva mentre gli smartphone si inserivano capillarmente nelle nostre vite, diventavano il nostro modo principale per comunicare, per orientarci e pagare, per menzionare solo alcune funzioni, e intanto sostituivano ==molte cose che oggi di fatto non ci sono più==. Il boom delle AI in “formato chat” è solo l’ultimo capitolo di una accelerazione di nuove tecnologie che hanno attecchito in maniera più o meno radicata nel post-Covid, basti pensare agli Nft o al Metaverso, o più banalmente alle primavere delle criptovalute e conseguenti inverni. ChatGpt e Midjourney sono entrati di fatto nelle nostre vite, potevano stare lontane dagli smartphone? Negli ultimi mesi, l’integrazione di funzioni AI in quelli che chiamavamo “telefonini” e non solo è stata protagonista dei keynote dei grandi del tech. Prima di tutto, per chi si occupa principalmente di software: Microsoft con Copilot, Google con Gemini. Questa estate proprio Motorola ha annunciato l’integrazione di Gemini sugli ultimi pieghevoli Razr, mentre Oppo lanciava uno smartphone AI “accessibile a tutti”. All’annuale conferenza degli sviluppatori Apple ha presentato [la sua formula per l’intelligenza su Mac e iOS](https://www.domusweb.it/en/news/gallery/2024/06/11/apple-intelligence-seven-things-to-know-about-apples-ai-push.html) e Samsung ha integrato funzioni AI su testo, traduzione simultanea e immagini sui Galaxy S24, potenziando poi la formula sulla nuova lineup dei pieghevoli Fold e Flip, sfruttandone il particolare fattore di forma per ulteriori declinazioni degli applicativi. Sui telefoni oggi possiamo chiedere informazioni in formato chat, trasformare conversazioni in note in formato testuale, modificare immagini e molto altro. Ma ci basta? Assolutamente no. Abbiamo pensato a quali sono le funzioni cruciali per migliorare le nostre routine e il nostro benessere. Eccone alcune. # Lo zaino Freitag disegnato pensando alla sua fine ###### Il nuovo Mono[pa6] segna un netto stacco con tutto quello che abbiamo visto fin qui dal brand svizzero. Eppure è forse la più radicale espressione della sua filosofia. L’abbiamo provato. Di Alessandro Scarano Nella gran movimentazione di zaini che ogni giorno occorre su treni e metropolitane, per poi riapparire tra i marciapiedi e tavolini dei caffè delle città di tutto il mondo, non si può certo dire che il nuovo di Freitag, il Mono[pa6], spicchi al primo sguardo. È nero, come tanti altri; le sue linee, in linea con le tendenze urbane, sono quelle dello zaino a sacco con chiusura rolltop, filiazione diretta della cultura dei bike messenger che ha tanto influito sul design di borse e zaini in questo inizio secolo. Anche il cordino bianco e nero ricorda quello di celebri modelli recenti. Ma osservandolo più da vicino, si notano dettagli importanti. La borsetta rimovibile, prima di tutto; e poi la varietà dei dettagli sulle superfici di Nylon. Anche le cuciture appaiono diverse e particolarmente curate. Questo zaino è in verità diverso dalla maggior parte di quelli che vedrete in giro. Impiega un unico materiale, il Nylon 6 o poliammide 6. Non è un materiale a caso: è facile da riciclare e viene creato da materiali di riciclo. È un materiale perfettamente circolare, a differenza dei teloni dei camion. Questo è uno zaino ==“costructed to be decontructed”==, dice Jeffrey Siu, il designer che ha collaborato con Freitag per crearlo. E l’uso di un unico materiale ne ha fortemente indirizzato la progettazione. “The self-imposed restriction to a single circular material results in a completely unique design language”, says Freitag. Questa, per il brand svizzero, è una “prima volta”. Per capirne l’importanza, bisogna fare un passo indietro. #### L’iconografia del telone per i camion Freitag, anagraficamente, è un brand millennial. Nasce nella prima metà degli anni Novanta; nel 2023 ha oltrepassato la soglia dei trent’anni. Lanciare in questo momento un prodotto nuovo, il suo più nuovo di sempre probabilmente, quindi, è un gesto fortemente simbolico. Questo “nuovo” di cui parliamo non è qualcosa che non c’entra con Freitag, un cellulare o un paio di cuffie per esempio o una collaborazione sull’arredamento, che sarebbero soprattutto mosse di marketing; il nuovo, per l’azienda di Zurigo, è una messa in discussione della propria identità. Il riuso fin dal suo anno zero dei teloni per camion per trasformarli in borse è stato per Freitag l’incontro perfetto di etica ed estetica. Etica, perché ha inscritto nel dna del marchio l’attitudine alla sostenibilità quando ancora se ne parlava pochissimo, a cavallo tra i due secoli; ed estetica, perché l’ha resa immediatamente riconoscibile in tutto il globo, con borse e zaini e altri prodotti tutti in qualche modo simili, ma nessuno uguale l’uno all’altro. Lo zaino Mono[pa6] nasce dall’ambizione di Freitag di creare una borsa facilmente riparabile e completamente circolare, che concluso il ciclo di vita potrà essere smantellata e trasformata in altro; è un design che esplode al suo massimo le ambizioni etiche del brand, sacrificando totalmente l’iconografia che lo contraddistingue attraverso la proposta di uno zaino bello ma anonimo, minimale e no logo se non per la piccola scritta Freitag sullo spallaccio sinistro. “So we hope that the people will say: Oh! that bag doesn’t look like Freitag at all - but the philosophy behind the bag is more Freitag than ever”, a brand representative points out. #### Il Mono[Pa6] L’impiego del monomateriale e la facilità di riparazione sono i due elementi chiave del design di questo zaino. E senza dubbio, ciò che lo rendono speciale: uno zaino, come spiega Freitag, creato ==“with the product’s end in mind”==. Tutti i 17 gli elementi dello zaino sono di poliammide 6. “Nylon can be extruded into yarns and woven into fabrics or molded into hardware”, spiega Siu a *Domus*, sottolineando che non è certo una novità, ma nell’ideazione dello zaino è diventata una applicazione ovvia per creare un sistema circolare. Per il corpo principale dello zaino, è stato sviluppato un “new three-layer laminate ripstop fabric”, leggero e resistente all’acqua. Ed effettivamente anche usato sotto un acquazzone lo zaino non si è bagnato all’interno. L’uso di un singolo materiale e di un unico colore non deve fare pensare a uno zaino dall’andamento monotono. Ci sono tanti dettagli che lo rendono speciale e interessante. Come la grande toppa in tessuto crespo che si nota sulla parte esterna, “produced by a machine that pulls and stretches the nylon fabric in a short and repetitive motion, creating the special texture”, spiega Siu. Anche le cuciture sono particolari. C’è un aspetto funzionale, spiega il designer: “the external double folded seams and knots are for ‘reversible disassembly’”. E aggiunge che “this will help the repairer’s work one day and enables the repaired product to look as close as possible to the original finish”. E ancora, spiega che “all seams are easily accessible and the cord, back padding and other trims can be easily removed and therefore replaced with little effort”. Il bianco delle cuciture è uno dei pochi contrappunti al nero omogeneo dello zaino. Gli spallacci sono larghi e non imbottiti. Questa scelta è stata dovuta all’impiego del nylon come unico materiale. “In the initial prototyping period we also experimented with padded straps”, spiega Siu. Tuttavia, così “they turned out to be quite stiff”. Da qui la decision “to move on with unpadded, light-weight but broad shoulder straps which are spreading the weight across the shoulders well”. Avere degli spallacci così sottili è anche parte di un più ampio pensiero di design dello zaino: sono state favorite la leggerezza e la possibilità di piegarlo e trasportarlo. Anche al suo interno la tasca per riporre il computer è morbida e protegge solo la base di un laptop. Il Mono[pa6] è uno zaino agile ed elegante, che si ripiega in una borsa più grande, non costruito certamente per portare troppe cose o carichi eccessivi. La totale mancanza di elementi rigidi lo rende immediatamente scomodo e faticoso sulla schiena se al suo interno vengono riposti oggetti troppo pesanti. È uno zaino leggero per una vita leggera, va benissimo anche per un weekend se non pensate di caricarci una impegnativa attrezzatura fotografica. La zip laterale (ovviamente in pa6) e il sistema di chiusura con arrotolamento velocizzano l’accesso al contenuto. #### Una nuova lineup La chiusura con il cordino e un fermaglio che si stringe e allenta; le originali fibbie in pa6 che sostituiscono bottoni o altre parti in metallo; le cuciture sul fondo che danno un taglio diagonale agli angoli dello zaino. La lezione del Mono[pa6] è che per arrivare alla sostenibilità non basta semplicemente “cambiare” i materiali. Lo sforzo di design sarà per forza consistente: bisogna pensare nuove soluzioni e abbandonarne di vecchie, che davamo per scontate. Con questo zaino in spalla, ci si sente un passo nel futuro e uno in una realtà parallela. Provandolo, non c’è mai stato un giorno in cui lo zaino sia risultato scomodo, nonostante tante cose siano un compromesso – vedi la tasca interna per il laptop. Se Jeffrey Siu decanta l’estrema flessibilità del nylon nel prendere forme diverse – parti solide, tessuto, cordini –, Freitag lamenta l’estrema fatica nel reperimento del materiale: “we didn’t expect”, says the brand, “that reduction in the number of materials would increase the complexity of the project, especially as regards sourcing, so drastically”. Un elemento che caratterizza in maniera unica lo zaino è sicuramente la borsa sganciabile, che può anche essere indossata autonomamente con l’uso di una tracolla. Si aggancia alla parte posteriore dello zaino, con la zip in evidenza o nascosta, e si può portare anche sul petto, grazie a due fibbie poste sugli spallacci. Siu racconta a Domus che fin dall’inizio, nel processo di sviluppo del Mono[Pa6], “c’erano i concetti di modularità e compatibilità”. Nel corso della fase di prototipizzazione, “sono stati esplorati diversi modelli per trasferire questo concetto nel progetto dello zaino”. E alla fine “the detachable musette was adopted”. La presenza di attacchi davanti e dietro allo zaino farebbero pensare alla possibilità di nuovi moduli sganciabili in arrivo in futuro, con uno zaino veramente modulare (e sappiamo che modularità fa rima con sostenibilità). Freitag fa sapere che i non ci saranno altri accessori, ma i piani sono quelli di trasformare il concetto di Mono[Pa6] in una famiglia di prodotti. E chissà se un giorno, tra trent’anni, identificheremo Freitag proprio con queste borse in nylon riciclato e facilmente riciclabili. # Abbiamo provato Sonos Ace, le prime cuffie Sonos Abbiamo avuto la possibilità di provare il design minimale del primo dispositivo indossabile di Sonos: ecco com’è andata. Le Sonos Ace sono delle cuffie minimaliste, molto minimaliste; leggere; confortevoli da indossare. È il primo dispositivo wearable, indossabile, di Sonos, che negli anni si è imposto come il più affidabile sistema di audio connesso per la casa. Speaker belli e funzionali, studiati per essere semplici da usare e per integrarsi facilmente in ogni contesto domestico, connessi via wifi e integrati su una app-piattaforma che raccoglie i maggiori servizi di streaming e presenta qualche chicca, come le Sonos Radio curate da artisti di rilievo come Thom Yorke o Lorde o Brian Eno. L’evoluzione di Sonos racconta bene come ci siamo interfacciati alla musica in questo primo quarto di secolo: dalla necessità di ascoltare in ogni stanza una libreria musicale fisica presente nell’hard disk di un singolo computer, all’integrazione di Spotify e degli altri servizi streaming con supporti fisici da collezione come i vinili. Nel 2021, Sonos è uscito per la prima volta di casa con Roam, il suo primo speaker portatile bluetooth. Ora, si lancia in un campo completamente nuovo, quello dell’audio indossabile, con un paio di cuffie, a lungo attese (e a questo punto prevediamo che prima o poi potrebbero arrivare anche degli auricolari…). ==[spiega di Sonos su rilevanza cuffie]== ==Sonos Ace vs AirPods Max== Nell’affollato mercato delle cuffie di questa prima metà degli anni ’20, sono state le AirPods Max di Apple a definire un nuovo benchmark estetico. Sono probabilmente l’unico design di Apple che sia sfuggito alla canonizzazione del proprio prodotto industriale e l’ispirazione Think Different di anni rivoluzionari per Cupertino – gugolate come reference “iBook 1999” per capirci – e sono quelle cuffie che qualsiasi tradizionalista che vi ha visto indossarle avrà commentato con un “Ma come fanno a piacerti! Quelle non sono delle cuffie!”. Con la AirPods Max, Apple ha decostruito il concetto di cuffia e l’ha condensato in un oggetto fluido e clamorosamente bold. Nell’estetica, sostituendo il classico l’archetto con una telaio di metallo e maglia, dilatando al massimo la scala dei padiglioni auricolari, integrando tra i comandi tattili la corona digitale già vista sui suoi orologi e spostando i pulsanti a portata di indice e medio. E all’interno, ci ha messo un chip. Il progetto delle cuffie di Apple si muove con una forza centripeta che le pone in controcanto rispetto alle cuffie come le avevamo conosciute; l’approccio di Sonos invece è quello di un recupero di forme e materiali originali per arrivare a una sintesi di semplicità. Di fronte al massimalismo delle AirPods Max, alla loro leggera pesantezza, al contrasto tattile tra la maglia e il metallo, le Sono Ace si distinguono per un minimalismo che a un primo sguardo potrebbe richiamare una fase prototipale, quasi embrionale, come se queste cuffie fossero uno studio di forme, quasi un archetipo. Certo, la lezione Apple che ha informato tutte le ultime tendenze delle cuffie si sente: i padiglioni sono dilatati, il metallo a vista c’è, mentre sembra oltrepassato l’azzardo di inserire comandi touch sulla superficie delle cuffie – spesso disastrosi per esperienza d’uso. In più, Sonos “copia” l’idea di rendere rimovibile con uno sgancio magnetico la parte dei cuscinetti, quella che si usura più facilmente e potrebbe essere necessario cambiare. Unico vezzo estetico, in realtà assai funzionale per distinguere il destro dal sinistro, il loro interno, che presenta due colorazioni differenti. Le imbottiture in pelle vegana delle Sonos Ace sono generose, sia dove si appoggiano alle orecchie, sia nell’archetto, l’impiego della plastica le rende leggere, calde e piacevoli al tatto. I comandi sono minimali, un pulsante di accensione e connessione – ma le cuffie dovrebbero accendersi automaticamente quando indossate –, un interruttore per regolare il volume e mettere in pausa la riproduzione, il tasto di attivazione della cancellazione del rumore e niente di più. Tutto piccolo, minimal, forse troppo. Sonos ha deciso di non creare una app ad-hoc, ma integrare le Ace nella sua applicazione già esistente. Anche qui il menù è estremamente semplificato e le opzioni sono solo quelle essenziali: un approccio minimalista che è molto diverso da quello di altri, come per esempio Sony. Quando le si sfila dalla testa e le si porta al collo, le cuffie risultano comode, senza essere comodissime. Fa un po’ strano avere in mostra la parte interna del padiglione, la più delicata, quando le si porta così. Per riporle, invece, c’è una custodia ruvida e piacevole al tatto. Le cuffie, adagiate all’interno, disegnano un sorriso: una scelta del tutto classica (e ingombrante) rispetto a quella iper-industriale delle AirPods, che hanno una cover magnetica, e non una custodia, con cui si trasformano in un oggetto inerte che sembra una borsetta ma contiene solo se stesso. ==Approccio di design Sonos== Chiusa (menziona audio Lossless e collegamento con soundbar) # Smetteremo di invecchiare: ma a quale costo? #### Una mostra a Basilea crea un percorso tra scienza e finzione per raccontare un mondo, quello della super longevità e di una giovinezza quasi eterna, che potrebbe essere molto più vicino di quanto pensiamo. ###### Di Alessandro Scarano Welcome back. Bentornato, bentornati. È questa la scritta che si presenta ai visitatori in fondo al corridoio immacolato e luminoso che fa da spazio d’uscita di “The end of aging”, la mostra sull’invecchiamento allestita al Kulturstiftung Basel H. Geiger di Basilea. O forse non è un messaggio per loro, ma per Kaspar, protagonista del racconto che occupa un buono spazio del volume che accompagna l’esposizione. Dopo un lungo sonno criogenico, Kaspar si sveglia nel futuro in un ospedale abbandonato, proprio come lo spazio che è stato scenografato per ospitare la mostra. “Per molti visitatori l’uscita è un nuovo inizio, perché fanno un nuovo giro”, spiega Michael Schindhelm, creatore (non “curatore”, sottolinea lui stesso) di “The end of aging”, nonché autore del racconto in questione. Vivere per sempre o prolungare la vita su questo pianeta all’infinito è un sogno che accompagna l’umanità da epoche antichissime e attraversa le narrazioni e i miti di ogni cultura. Solo recentemente è passato a essere un progetto scientifico, spiega a *Domus* Michael Schindhelm, regista e curatore di lungo corso con un background da scienziato. Ma se negli anni Novanta la prospettiva di vita eterna passava attraverso la fusione tra essere umano e computer, oggi è la biologia che, grazie alla genetica, proietta un futuro in cui vivremo il doppio e soprattutto non invecchieremo proprio. Si chiama “la fine dell’invecchiamento”, la mostra, ma poteva chiamarsi “la fine della sofferenza”. La sofferenza del corpo e della mente che decadono. La statua di una tartaruga accoglie il visitatore all’ingresso: sono creature che vivono fino a 250 anni, spiega Schindhelm, ma il loro corpo resta fino alla morte circa come era a 50. La mostra è organizzata in due fasi, due grandi polarità in dialogo tra di loro. Schindhelm ha creato nella prima un percorso di speculative fiction per raccontare un mondo in cui il sogno della longevità si è avverato. Il visitatore è immerso in uno scenario di fantascienza, con molte eco cyberpunk, ma in qualche modo sta camminando all’interno di un futuro che potrebbe davvero essere il nostro. Per l’occasione gli spazi espositivi della Kulturstiftung Basel H. Geiger sono stati trasformati nella replica di un ospedale abbandonato, con il contributo di Giulio Margheri di Oma, Luca Moscelli, fondatore di Buromosa e il sound designer Till Zehnder. Lo spazio è cupo, postapocalittico, ma al tempo stesso “l’ospedale è una metafora della nostra società”, spiega Schindhelm, “siamo tutti visitatori, in un ospedale”, e dopo che la pandemia ne ha evidenziato il lato oscuro, è anche diventato un “simbolo del trascurare”. Alla fine di un percorso tra le stanze buie e graffitate di un ospedale abbandonato dove le uniche eco di una umanità costretta a vivere per sempre sono incapsulate nei video, il visitatore entra nella grande recovery room. Adagiati come pazienti sui lettini, con le cuffie appoggiate dove dovrebbero esserci le flebo, si assiste alla parte documentaristica della mostra, un montaggio di più di un’ora e in 15 capitoli nel corso del quale intervengono nomi del pantheon della scienza della longevità, come il biologo molecolare Michael N. Hall, il premio Nobel in chimica Venki Ramakrishnan, l'epidemiologa Jess Bone e altri scienziati di livello mondiale. “Accostare finzione e non-fiction permette ai visitatori di fare esperienze nella spazio e lasciarsi provocare”, spiega Schindhelm, che ha creato la mostra come l’accostamento tra una parte “immaginativa” e una “illuminante”: come spiega lui, “l’arte comunica alla pancia e al cuore, la scienza al cervello”. Servivano dunque entrambe per un tema così complesso. Dopo la recovery room si accede al corridoio bianco, “welcome back”: “molte persone non escono, restano molto a lungo”. “Non fare mai mostra noiose!”, questa l’indicazione che Sybille Geiger, scomparsa tre anni fa, ha dato a Raphael Suter, ex giornalista della Basler Zeitung e oggi direttore della fondazione che porta il nome Geiger – intitolata al nonno di Sybille, Hermann, creatore di una delle più importanti aziende farmaceutiche svizzere. Con cui Sybille volle sempre avere poco a che fare: nata nel 1930, fin da giovane seguì la passione per l’arte, spiega Suter, trasferendosi a Parigi - dove frequentava tra gli altri Giacometti e Tinguely –, specializzandosi come costumista teatrale, a Berlino e poi Lucerna, lavorando anche negli spaghetti western. Si sposa con un italiano e va a vivere in Toscana. Una vita bella ma tutto sommato normale fino a quando l’azienda di famiglia non viene rilevata da una grande multinazionale. A quel punto, Geiger si trova a essere tra le persone più ricche della Svizzera. E decide di destinare i soldi per aprire una fondazione, nel 2019, prima a Cecina, dove viveva, e poi di muoverla a Basilea. “Non siamo una galleria e non vogliamo fare quello che fanno gli altri”, spiega Raphael Suter, ripercorrendo la storia delle mostre fin qui allestite al Kbh.G: nell’essere unici c’è anche la scelta di creare un libro per ogni esposizione che viene donato ai visitatori. Ogni mostra è gratis e Suter ha grande libertà di budget. Racconta a Domus alcune delle passate esposizioni proprio scorrendo tra i libri, nei luminosi spazi di una ex fabbrica convertita in museo da Christ & Gantenbein. I temi sono tantissimi: si passa dalla fotografia alla musica all’ecologia. Ogni volta lo spazio viene completamente trasformato. Questa volta in ospedale, quasi un paradosso per un edificio che si affaccia sull’Universitätsspital. Tornando a “The end of aging”, durante la nostra conversazione, Suter cita un passaggio dell’intervista di Ramakrishnan: “Quando siamo giovani vogliamo diventare ricchi, quando siamo ricchi vogliamo diventare giovani”. Una frase esemplare, che ricorda il lato probabilmente più distopico della ricerca dell’immortalità: quello di essere legato a doppio filo con la ricchezza. Tutti desideriamo la longevità, spesso per chi ha tutto diventa un’ossessione, come splendidamente metaforizzato dalle teste delle celebs della serie animata Futurama, che non a caso debuttò proprio a fine anni Novanta, o amplificato dalla leggenda urbana sulla testa criogenizzata di Walt Disney. La pietra filosofale della leggenda era al tempo stesso capace di tramutare qualsiasi metallo in oro e di fare da elisir da lunga vita; oggi viaggiamo verso un mondo futuro in cui l’1% è bellissimo, si nutre in maniera sublime, viene educato nelle migliori scuole e - soprattutto - vive per lunghissimo tempo. Gli altri forse no. Ci sono voluti due anni per creare questa mostra. “Ho imparato molto”, spiega Michael Schindhelm. Stare a contatto con gli esperti della longevità lo ha convinto che nel futuro “moriremo giovani, ma dopo una lunga vita”. Dopo “The end of aging”, che chiude a luglio, debutterà al Kbh.G un’altra mostra di Schindlhelm, questa volta dedicata alla Bali post-coloniale, vista attraverso la vita di Walter Spies, pittore e musicista tedesco che ci si trasferì sul finire degli anni Venti, promuovendo per primo la cultura balinese in Occidente e modificandone a sua volta la traiettoria. ==chiusa: Covid?, nuova mostra== ==billionaires== Houllebecq Switzerland La sua ricerca sul covid Creator not curator “Staged” Welcome back, man in the short story The end of suffering Fiction + non fiction = heart + brain Catalogo free Ma una lezione fondamentale l’aveva già imparata durante il Covid, realizzando un documentario sulla creazione del vaccino. Lì aveva visto il lavoro degli scienziati fino a quel punto alla periferia della nostra società “diventare la chiave della salvezza del nostro mondo”. La scienza era diventata rilevante in un modo che arte e cultura non erano riuscite a fare, durante la pandemia, e questa mostra è una diretta filiazione di quella presa di coscienza.~~ In collaboration with [Giulio Margheri,](https://www.linkedin.com/in/giulio-margheri-2b048b9b/?originalSubdomain=it) architect and urban researcher at [OMA](https://www.oma.com/), Luca Moscelli, founder of [Buromosa](http://buromosa.com/), a Rotterdam-based architecture practice, and [Till Zehnder](https://zehndersounds.ch/), sound designer, Schindhelm will transform KBH.G with a site-specific, immersive installation.  Five actors and musicians have participated in the project alongside Michael Schindhelm: [Tabitha Frehner](https://www.instagram.com/tabithafrehner/) (actress), [Graham Valentine](https://www.grahamfvalentine.com/) (actor, voice actor), [Jürg Kienberger](https://www.imdb.com/name/nm2660571/) (musician, actor), [Hana Motokura](https://www.instagram.com/hanamotokura/) (child actress), and [Urs Baur aka Black Tiger](https://www.last.fm/music/Black+Tiger) (rapper).  The Kulturstiftung Basel H. Geiger is a leading cultural foundation dedicated to fostering innovative and thought-provoking artistic experiences. With a commitment to interdisciplinary collaborations, the foundation seeks to engage audiences in meaningful conversations about contemporary issues. Founded in 2019 by philanthropist Sibylle Geiger (1930 – 2020), the foundation is named after her grandfather, Swiss pharmacist and entrepreneur Hermann Geiger (1870 – 1962). The establishment of the foundation is linked to the goal of providing the city of Basel and its residents and visitors with a novel forum for art and culture. Admission and and accompanying catalogue are free # Tutte “cose” che sono scomparse dentro lo smartphone In due decenni, lo smartphone non ha solo cambiato il modo in cui comunichiamo: ha letteralmente stravolto il paesaggio fisico intorno a noi. Ecco come. Scorrere le immaginio del primo iPhone, uscito quasi venti anni fa, è una esperienza spiazzante. Perché il dispositivo che ha inaugurato l’età dello smartphone è parecchio diverso da come ce lo ricordiamo. Un po’ un tuffo al cuore, molto bagno di realtà. E non c’entrano solo le dimensioni ridotte, le grandi cornici o quello schermettino dove legge l’evidenza della rete di pixel che lo forma. Lo shock è iconografico. Si riassume con una parola: scheumorfismo, ovvero l’uso di interfacce grafiche che simulano gli oggetti del mondo fisico, in gran voga nella Apple di quegli anni. La calcolatrice aveva tasti smaccatamente tridimensionali, le note sembravano delle pagine di quaderno e i memo vocali presentavano un bel microfono sullo sfondo. I libri stavano su scaffali di legno e tutte le icone simulavano una fisicità che oggi ci sembra strampalata e poco elegante, e che almeno nel mercato occidentale sa di “vecchio”. Come il vagamente inquietante girasole che compariva nel tasto dell’app Foto, prima versione. Lo scheumorfismo era smaccatamente sincero: rappresentava l’istinto cannibale dello smartphone, capace via via negli anni di “assorbire” al suo interno oggetti fisici, che sono stati decimati nel mondo reale se non proprio spariti, o talvolta si sono radicalmente trasformati. Oggetti che non erano semplici cose, ma fulcri di interazioni, o esito di intere filiere di interazioni, modalità di commercio o comunicazione, oggi dissolte. Sostituire le cose ha cambiato irreversibilmente le persone e come si relazionano tra di loro. Alcuni esempi di questi “oggetti cannibalizzati” sono così clamorosi che quasi non meritano di essere citati. Il telefono, di cui lo smartphone costituisce del resto una esplicita evoluzione. Il computer, di cui ha assorbito tante funzioni – non ci si crede, ma un tempo tornavamo a casa per leggere le mail. E poi c’è da dire che l’ubiquità dello smartphone insieme all’avanzamento delle tecnologie hanno sdoganato la smaterializzazione dei dati nel cloud, facendo evaporare non solo gli oggetti fisici, ma anche quelli digitali: pensate a tutte le collezioni di mp3 o file video, quando oggi la musica e i film corrono via streaming. L’oggetto “cannibalizzato” per eccellenza è sicuramente la macchina fotografica. Non solo lo smartphone l’ha di fatto soppiantata nel mercato di massa, mettendo in crisi grandi e piccoli produttori, ma per anni, almeno prima che l’AI diventasse il nuovo epicentro di storytelling intorno a cui le narrazioni dei produttori di smartphone impostano le loro campagne di comunicazione, il “cameraphone” ne era l’indiscusso protagonista. Con l’idea che lo smartphone fosse soprattutto una fotocamera con il telefono attaccato. E c’era sempre un telefono che faceva foto migliori, con più megapixel, più nitide al buio, con un bokeh più raffinato nella modalità ritratto. Ed è stato proprio in merito alle fotocamere che abbiamo sentito parlare, forse per la prima volta in maniera esplicita e diffusa, di ottimizzazione tramite machine learning e AI. Non è raro, soprattutto nelle strade delle grandi città, notare qualcuno con una reflex al collo, magari a pellicola; o che al tavolo di fianco al tuo in un caffè sia appoggiata una Olympus mju, una Yashica T4 o qualche altra vecchia compattina analogica. Per ogni grande tendenza, ci sono sacche di resistenza. E negli anni i media hanno sottolineato spesso con enfasi eccessiva l’amore delle nuove generazioni – gen z, gen alpha, gen vattelapesca – pre le retrotecnologie di una volta, dalla musica in vinile al walkman, dai telefoni “dumb” a conchiglia alle collezioni di volumi cartacei di manga a qualsiasi altro oggetto che probabilmente rasserenava soprattutto il giornalista pre-nativo digitale davanti all’irreversibile dissoluzione di tanta parte del mondo materiale con cui era cresciuto in un tutto sommato banale oggettino che si tiene in tasca. #### Specchio, specchio delle mie brame… Perché occupare spazio nella borsetta, quando per darti una rifilata di gloss stick puoi semplicemente aprire la fotocamera del telefono in modalità selfie? #### I giochi Lo smartphone è il re dei dispositivi da gioco, tanto che si gioca più sul telefono che sulle console, oramai, e ci sono anche modelli dedicati. Il telefono ha realizzato il sogno del GameBoy: la maggior parte dei giochi che facciamo, li facciamo li. Anche gli scacchi… o i Pokémon. #### Le informazioni ai passanti Più che le mappe vere e proprie, quelle se le erano già mangiate i navigatori gps, lo smartphone con Google Maps ha quasi definitivamente eliminato una importante connessione tra chi è di un luogo e chi lo visita: la richiesta di informazioni. Oggi, se ti chiedono dove si trova una strada o un particolare edificio in zona, ti chiedi subito se ci sia dietro una batteria scarica… o una truffa. #### I negozi Non fare finta di niente, anche tu compri tanto, tantissimo online. Che sia su Amazon, la spesa dell’Esselunga o un vestito usato su Vinted o un vinile di Discogs, cambia poco. #### Il portafogli Non è solo per i soldi, cash o carta di credito, i biglietti del treno o dell’aereo, i biglietti da visita o l’app dell’Esta. Il telefono ha via via assorbito praticamente tutte le funzioni del portafogli, in attesa che anche i documenti di identità si trasferiscano definitivamente lì. Anche quelle che forse non ricordi, come conservare quei bigliettini dove avevamo preso un appunto veloce o le foto dei familiari. Del resto passeremo alla storia come le generazioni che avevano le foto dei figli sul blocco schermo dello smartphone. #### Gli amici Anche loro sono finiti dentro il telefono. Qualcuno non ne esce mai. Altri li continui a trovare anche nella vita reale. Spesso sono parecchio diversi. C’è anche una certa difficoltà a distinguere “amico” e “follower”. Ma questa è un’altra storia. #### La lista della spesa Oggi è una tab della app Note, un tempo era un foglio di carta in cucina, spesso appeso a parete o sul frigorifero, che veniva aggiornato via via che finivano le cose. La spesa non si ordinava online, ai tempi, la si andava a fare in questi luoghi molto vintage chiamati “mercati” e “supermercati” di cui resta in verità ancora qualche traccia. #### L’iPod Il primo iPhone, narrano le cronache, poteva essere molto più simile all’iPod rispetto a quello che conosciamo. Di sicuro, in casa Apple, lo smartphone ha ucciso il lettore musicale. Ma la vera rivoluzione è stata il cloud: la musica oggi è da-qualche-parte, prima dovevi comprarla o rubarla, trasferirla sul telefono.. uno sbattimento totale che a qualcuno piace ancora, metti il caso di Cindy Lee e del suo osannatissimo Diamond Jubilee, giudicato con uno stellare 9.1 su Pitchfork, uscito quest’anno in formato .wav e scaricabile su Geocities, un sito che sa così tanto di y2k che neanche ci ricordavamo esistesse ancora. #### Il porno C’è stato un tempo glorioso (e peloso) di videocassette e riviste che oramai hanno il sapore irresistibile del vintage, tanto da essere diventate oggetto da collezionismo. Per decenni, molte edicola avevano un’area inaccessibile ai minori. Ma le edicole non ci sono più, in compenso abbiamo Pornhub, YouPorn, un’esplosione di porno reality e amatoriale e l’apoteosi dell’erotismo DIY su Onlyfans. E poi diciamolo, tante volte basta Instagram. #### La torcia Eh sì, un tempo era un oggetto a parte, non una funzione del telefono. #### Il televisore La tv si guarda a letto dal portatile e l’unico schermo utile è quello attaccato alla PlayStation: se parli con un millennial, la vita oramai pare questa da almeno un decennio. Aggiungiamo un elemento: è cambiato completamente il modo di fruire la televisione. Non solo perché l’on demand del modello Netflix ha stravinto sul palinsesto, ma perché la tv è diventata i reel di Instagram e TikTok, dopo essere già abbondantemente stata i video di YouTube. E la partita la segui ovunque dal cellulare esattamente come la ascoltavi sulla radiolina. #### Le lettere d’amore La grande stagione del romanzo epistolare è nel diciottesimo secolo, si chiude simbolicamente con Dracula (1897) e ha alcuni notevoli trascinamenti postmoderni nel ventesimo (vedi *Carrie* o *Casa di Foglie*). Lettere, abbiamo continuato a scrivercene. Quelle che ricordiamo con più passione sono quelle d’amore, che spesso includevano disegni o foto o addirittura fiori secchi e profumazioni. La carta era scelta spesso con cura maniacale. Un tempo il follow-up a una rottura sentimentale era un plico di fogli, oggi un paio di audio e un dm su Instagram. #### Le chiavi Ehi, le macchine si aprono dal cellulare! E anche casa… ma se si scarica la batteria? #### Il maggiordomo Con Siri, Alexa, Google Assistant, Bixby e tutti i loro compari, una figura che associamo al lusso (e soprattutto a Batman) si è digitalizzata in forma democratica, per tutti. Prossimo step, AI sempre più potenti. Finché non sarà l’AI a sostituire proprio lo smartphone. #### L’orologio Che senso ha averne uno se tanto l’ora la leggi sul telefono? È diventato un accessorio di moda o un tracker per prestazioni sportive. Ma puoi lasciarlo a casa e la vita non ti cambia. #### La segreteria telefonica Vai tu a spiegarglielo a un Gen Z che un tempo era un oggetto fisico che di solito stava giusto di fianco a quel “telefono fisso” di cui tutti ancora parlano. #### La sveglia Eh sì, anche questo era un oggetto un tempo e non una funzione del telefono. Aveva anche una variante, la radiosveglia, che integrava una radio… come? In che senso non sai cos’era una radio? #### La carta Per un breve periodo si pensava che l’editoria sarebbe diventata tutta digitale, magari come replica su iPad. Beh, non è successo. Libri e fumetti stampati stanno benissimo. E anche le moleskine. Tuttavia, vediamo sempre meno carta intorno a noi. E ne vedremo sempre di meno. Perché è cambiato il nostro modo di leggere, radicalmente: più compulsivo, frammentario e comunque tantissimo sul telefono. Ma se hai l’abbonamento al cartaceo di *Domus* puoi stare tranquillo che continuerai a riceverlo per un bel po’. **Il menù** Con la pandemia è diventato un QR code. Ma in fondo perché uscire a mangiare, quando puoi ordinare a casa dal telefono? # Il design computazionale al cuore della progettazione Nike Per inquadrare il design computazione e la sua centralità nella progettazione di Nike, Roger Chen vicepresidente ==NXT== Digital Product Creation, parte dall’architettura parametrica. Ovvero da quell’architettura “del parametro” che si affida all’algoritmo e oggi inequivocabilmente alla automazione della macchina per scatenare la creatività umana al massimo del suo potenziale. Con due nomi sacri, quelli di Zaha Hadid e Frank Gehry, le cui immaginifiche eppure funzionali creazioni non hanno influenzato solo le generazioni di architetti che sono seguite, ma hanno avuto anche un diretto influsso su quello che portiamo addosso… e ai nostri piedi. Nascono così le Nike Zoom Air Freak 1, con cui il grande cestista greco-nigeriano dell’Nba, Giannis Antetekounmpo ha celebrato la sua famiglia e soprattutto il padre scomparso. La sua eredità è letteralmente inscritta nel design della calzatura, con un motivo sulla suola che rappresenta tre rose, fiore a cui Charles Antetekounmpo era particolarmente legato, e una scritta dal corpo minuscolo incisa sempre sulla parte inferiore della scarpa, “I am my father’s legacy”, ovvero sono l’eredità di mio padre; i nomi dei quattro fratelli di Greek Freak sono riportati a loro volta vicino al tallone.. Una minuziosa precisione, impossibile senza la tecnologia di design sviluppata da Nike negli ultimi anni; e nel motivo delle rose sulla suola è chiara la “mano” parametrica, come lo è nell’abito perforato che la tennista bielorussa Aryna Sabalenka ha sfoggiato agli Us Open l’anno scorso, il suo primo abito Nike “su misura”. Un indumento sportivo color corallo con gonna asimmetrica di cui si è parlato a lungo, i cui pattern hanno un sapore futuristico, mentre le precise aperture sono state studiate anche qui al millimetro grazie agli strumenti Nike. Tutto questo non sarebbe mai stato possibile senza un intenso uso del computer design e l’altissimo grando di conoscenza a Beaverton del design computazionale, che rendono possibile un controllo “pixel by pixel, stitch by stitch” del risultato finale, spiega Chen. Tutto questo fino a qualche anno (e tecnologia) fa non sarebbe stato possibile. “Quando guardi alla complessità dei nostri prodotti, sarebbe impossibile che un designer faccia tutto questo usando solo la sua testa”, spiega, senza nascondere l’orgoglio per i risultati raggiunti. Risultati che sono a valle di un grande investimento su un sistema di design che parte da una potente raccolta di dati. All’origine di questo “rinascimento digitale”, come lo definisce Chen, impossibile non individuare John Hoke, oggi a capo dell’innovazione Nike. Di formazione architetto, è stato proprio sotto la sua gestione del design di Beaverton che in Nike ci si è chiesti se fosse possibile tradurre la lezione di quegli “splendidi architetti che hanno spostato i limiti della progettazione”, i quali, sottolinea Chen, non avrebbero potuto farlo senza scandagliare le potenzialità del design computazionale: un “connubio per artisti”, che permette di fare cose prima ritenute impossibili. Ma come la lezione delll’architettura parametrica è stata ricreata in Nike? Prima di tutto nella progettazione del footwear, spiega Chen, seguendo due coordinate fondamentali. La prima, quella che da sempre è alla base della filosofia dello Swoosh: risolvere ogni problema di performance degli atleti; e in secondo luogo, portare lo storytelling dell’atleta, della comunità di riferimento e del consumatore nel design. Chen, che ha un background in tecnologia e design si definisce “uno pseudo-architetto” raccontando anche la sua passione per *Domus*. L’ispirazione dall’architettura nel nuovo approccio di design di Nike, dice, viene dal fatto di potere raccogliere dati - “storici, materiali e ingegneristici”, e utilizzarli per creare geometrie che spingano gli atleti verso performance sempre migliori, magari partendo da uno “schizzo matto”, un disegno immaginifico come potevano essere quelli di Zaha Hadid. Tutto questo ovviamente sarebbe impossibile senza l’utilizzo dei dati raccolti da Nike, soprattutto quelli nel nuovo, immenso e tecnologicamente avanzatissimo LeBron James Innovation Center — “Nello sviluppare estetica e strutture, l’esecuzione ha un supporto fondamentale nei dati”. Ma i dati non bastano: serve anche il riscontro degli atleti - da quelli di livello olimpico agli amatori. “Usando insieme data e racconti, possiamo sbloccare nuove conoscenze e progettare in nuovi modi”. Il digitale e il computazionale diventano così una sorta di nuova penna, che permette al designer di creare “un prodotto unico”: per chi lo crea e per Nike. Intanto è comparso un MacBook sul tavolo della saletta dove incontro Roger Chen, che sullo schermo mostra come i dati raccolti da Nike vengano poi impiegati nella fase di progettazione: in primo luogo dati fisiologici, con temperatura e sudorazione, in modo da disegnare gli indumenti più performanti. Poi mostra alcuni esempi di come gli indumenti vengano creati digitalmente su un avatar digitale catturato attraverso il motion capture, con la possibilità di cambiare struttura e dettagli mantenendo la funzionalità. Ovviamente, tutto questo non elimina completamente la fase della prototipizzazione fisica. Ma permette di arrivare prima al prodotto fisico. “E da quello che so, siamo gli unici: tutti gli altri usano ancora i manichini”. Con il prepotente utilizzo del digitale nel processo di design di Nike, il tema dell’archivio è fondamentale. Archivio inteso non solo come doppio digitale di quello fisico, ovvero dell’incredibile collezione di modelli storici custodita a Beaverton, che viene studiata e usata continuamente come riferimento, ma anche di tutto quello che viene creato digitalmente e non prodotto, che possono essere anche svariati tipi per ogni scarpa che poi va sugli scaffali, spiega Andy Caine, VP Footwear Design, che sottolinea anche l’importanza di collezionare i piccoli modelli fisici, che spesso ricordano più ==un’opera del grande scultore Noguchi== che una semplice scarpa, che vengono prodotti come parte del processo di studio di nuove forme per le calzature. ==???kitbashing??== La scarpa è prodotto, accessorio, moda; ha connessioni culturali, sportive; e ovviamente si connette alla storia di Nike. È un oggetto da creare mescolando tutti questi elementi. E con le nuove tecnologie. Chi la progetta e la progetterà è una figura di designer in piena evoluzione che secondo Caine non può prescindere da una forte propensione curatoriale. “Costruire un nuovo dna del futuro, rispettando il DNA Nike del passato, è qui che la cura diventa un'interazione davvero forte”. Soprattutto se entra in gioco l’elemento più dirompente con cui la creatività si sia confrontata negli ultimi decenni: ovvero l’Intelligenza Artificiale, che in Nike viene già usata. “In un modo probabilmente diversa da come la usano tanti altri”, ovvero con un sistema chiuso, spiega Caine. “Abbiamo pensato che oggi se hai una visione, puoi creare una immagine in autonomia”, e quindi senza ricorrere a fonti esterne. “Usiamo l’AI per creare l’immagine e poi iniziamo a esplorare”, con una serie di software che permettono di fare evolvere la forma della scarpa. A questo punto risulta chiaro che il ruolo curatoriale diventa critico, perché il designer del futuro si troverà a scegliere tra 200 forme, “e dovrà scegliere quella giusta su cui lavorare”. Andy Caine sorride, pensando a come si è evoluto il mestiere e quanto ancora cambierà. Quando ho iniziato a progettare si usavano penne, matite, pennarelli, mentre ora le cose sono cambiate: oltre a penne, matite, pennarelli, ci sono computer, AI, modelli 3D e stampanti 3D. Dal design computazionale all’uso intensivo dell’AI, dunque, ma come strumento, non al posto dei designer. “Probabilmente vedremo un mondo umano-centrico con una creatività aumentata attraverso gli strumenti di AI procedurale”. Nelle parole di Caine si sente l’entusiasmo per il futuro da parte di chi ha la fortuna di vederlo da un punto particolarmente privilegiato. “È uno dei migliori momenti per essere creativi da quando sono su questo pianeta”, conclude. +++ Andy Caine ![](image%205.png) for Nike, the connection of those three things is really powerful. when I started designing was pens, pencils, markers, good old days, and now that has shifted and it's pens, pencils, markers, computers, ai, 3d models, 3d printers, you name it. It's really expanded. a shoe is kind of part industrial design, part accessory design, part fashion. Design. And it has a sport connection, a cultural connection, and a Nike connection. So as an object to create. It's a really powerful thing to mix and match different aspects of that. 60/70 tipi diversi per ogni scarpa, piccoli modelli, tentativo di archiviare kitbashing, “kind of digital lego”, allows us to look at things within the past and kind of take archival things we've not used and putting together new ways to go forward ~curation~: curation becomes quite critical, exploring and curate the curation part. I think for any designer in the future, and up to date. If you can make 200 Those forms, picking the right one or two///~trying to build a new DNA of the future but also respect the DNA of Nikes in the past, yeah, that's where that curation becomes a real strong interplay~ “we have an amazing shoe archive and we’ve been scanning a lot of them” using AI, Nike’s toolset, not just browsing through what’s been done, “What we thought was like, hey, in the current day, if we have a bit of a vision, we can probably create an image ourselves. So early inspiration that mood boards, were generally using AI just to create the image that we think is so we don't have to pull it from somewhere. And then, as we start to explore, we can rapidly explore part of what you saw yesterday. There's another component which is AI to do very early on, but have more sculptural gestural creation. That's another part of that toolset” AI is a very broad term. Yeah. The way we're using it is were using more of a closed system. Ai won’t take the place of designers. “I think it'll be augmentation, and augmentation. Again, similar to what I mentioned yesterday, I think, you know, it we're really like seeing the world human centric with augmented creativity through AI procedural tools”. ~Frase finale:~ It requires a human ai plus procedural and that augmentation of expanding the mind to be more creative, and then the curation part to pick the right things that make it unique. Those become the kind of craft and mastery of design in this sort of physical digital world we're in right now, which I think will just continue to evolve is my assessment. this time now is like one of the best times to be creative in in the time I've been on the planet. it's an explosion of creativity Design computazionale ![](image%206.png) ![](image%206.png) ![](image%206.png) ![](image%206.png) # Una avventura in autobus La mancanza di abitudine di essere vicini ad altre persone Mobilifici e concessionari Did we match? Non sei più così bella, chi se i #Idee # Abbiamo provato il nuovo laptop ThinkPad pieghevole Page title: Lenovo X1 Fold: abbiamo provato il nuovo laptop ThinkPad pieghevole La seconda generazione del computer portatile X1 Fold di Lenovo ha molti meno compromessi della prima: dietro c’è un grande sforzo di design, anche se di certo non è un dispositivo per tutti. Più grande è meglio: così Brian Leonard, VP Design di Lenovo, presenta la seconda generazione del ThinkPad X1 Fold, il primo - e finora unico - personal computer pieghevole. Che è diventato grande, in tutti i sensi. *Domus* aveva seguito il processo di design del primo modello proprio sotto la guida di Leonard, un allievo di Richard Sapper. Del ThinkPad originale, disegnato dal maestro tedesco del design industriale, questo nuovo X1 Fold recupera in maniera più marcata la lezione del bento box, della scatola delle meraviglie che da chiusa è solo un parallelepipedo nero e che esplode meraviglie e funzionalità una volta dischiusa; senza perdere però l’intuizione della *moleskine* che ha fatto da reference per il primo modello, quasi un quaderno personale, sempre a portata di mano e comunque meno ingombrante di un qualsiasi laptop. Dispositivo perfettibile sotto svariati punti di vista e al tempo stesso così pieno di potenziale che probabilmente perfetto non lo sarà mai, il grande pregio dell’X1 Fold è stato quello di introdurre un form factor davvero nuovo nel contesto stagnante del mercato tecnologico di oggi. Un computer che sembra un quaderno e che nessuno vi chiederà di infilare nel bagaglio a mano durante l’imbarco su un aereo. Semplicemente perché non è percepito come un computer portatile. Ma appena lo aprite, l’effetto-wow è assicurato. Ora su uno schermo da 16” - contro i “miseri” 13” del modello precedente. Provandolo in mobilità, l’X1 Fold seconda generazione si è dimostrato un compagno prezioso, che può essere utilizzato al volo appoggiato al corrimano di una stazione della S-Bahn berlinese, come tablet extralarge in un loculo della business di British Airways su un viaggio intercontinentale o come un PC all-in-one in un coworking parigino. L’X1 Fold è solido, robusto, portatile, con finiture piacevoli alla vista e al tatto come la copertura zigrinata, e un feeling per niente plasticoso e interamente ThinkPad. Qualcuno apprezzerà di più la sua flessibilità, la capacità di essere adattato a diverse occasioni, altri probabilmente lo impiegheranno solo come grande schermo, altri ancora lo prenderanno come una versione ultra-deluxe di quei netbook che spopolavano a inizio anni 2000. Il ThinkPad X1 Fold è un dispositivo con un prezzo importante e un target altissimo: circa 5000 euro non sono da tutti. È un computer da manager - di qualsiasi campo: finanza, architettura, design, comunicazione - con un grande spirito da early adopter. Ma la sua estrema adattabilità, l’ampio raggio di possibilità di utilizzo e soprattutto il fatto che entra perfettamente in una sling-bag fanno pensare a un futuro in cui l’X1 Fold e il suo formò factor diventeranno popolarissimi tra chi si sposta tanto, anche low cost, studenti e digital nomad che non si accontentano di un tablettino o un telefono, vogliono sempre con loro un computer. “Penso che siamo a un punto di svolta con i nuovi dispositivi, specialmente quelli pieghevoli su cui stiamo lavorando da anni”, dice Leonard: “ e stiamo veramente iniziando a pensare a modi di lavoro nuovi e più flessibili”. #### Schermo L’X1 Fold è uno schermo iperluminoso Oled che si piega, con dietro un potente computer con processore Intel i7 di dodicesima generazione. Ma potete anche vederlo come un tablet da 16” che si chiude o che può essere usato come un computer portatile da 12” flettendolo (anche se risulta un po’ sbilanciato senza appoggiarci la tastiera). La cerniera da 200 componenti è parente stretta di quella del Razr - ThinkPad e Motorola sono entrambi brand di Lenovo - e i due dispositivi messi uno accanto all’altro mostrano un alto grado di parentela nelle scelte estetiche. A livello funzionale, la grandezza dello schermo lo rende difficile per l’utilizzo come puro tablet - già la prima generazione a 13” era al limite; più probabile l’utilizzo semipiegato, ma ci si deve adattare. Ci sono due prese Ubs-c Thunderbolt, ma la loro collocazione non sembra la più logica rispetto alle diverse modalità di utilizzo del computer. #### Accessori Una penna (che si aggancia magneticamente), una tastiera (finalmente full size!) e uno stand sono gli accessori a corredo. La tastiera è dotata del celebre “punto rosso” ThinkPad per muovere il cursore e di un trackpad aptico dalle dimensioni certo non generosissime: c’è chi preferirà portarsi un mouse per l’uso su desk. Inoltre, la tastiera va caricata via usb-C e in un dispositivo così futuristico sembra un po’ una caduta di stile. Buona invece l’esperienza di digitazione, anche se l’agganciarsi del dispositivo alla parte inferiore dello schermo non è proprio indimenticabile: ogni tanto un po’ balla. Rispetto a quella del modello precedente si tratta comunque di un incredibile passo avanti. Scrittori, fatevi avanti. #### Portabilità Nella prima generazione del Fold, lo stand era integrato nello chassis. Separarlo significa aprire nuove possibilità (come l’utilizzo dello schermo in verticale, anche semi-piegato, che a molti piacerà) ma implica un oggetto in più da portarsi dietro. Tastiera e stand, aggiunti al dispositivo che sicuramente già di suo non è iper-sottile, creano un bello spessore da fare entrare in borsa (il peso del solo dispositivo è poco meno di un chilo e trecento grammi, a cui aggiungere poi gli accessori). C’è anche da chiedersi se non sarebbe stato più elegante avere tastiera e stand combinati in una cover da agganciare al corpo del dispositivo, invece che una soluzione blandamente magnetica come quella attuale. L’impressione è che il team design di Lenovo avrebbe potuto farsi qualche domanda in più su come questo dispositivo possa venire trasportato dagli utenti: il pensiero che finisca in una borsa non è così scontato. Spesso te lo porti sotto braccio proprio come un quaderno. Ma una tracolla, per esempio? #### Interfaccia Aprendo l’X1 Fold a metà come se fosse un portatile ma senza usare la tastiera, potrebbe accadere che il sistema richieda il pin per l’accesso. Ma la casella dove inserirlo sarà quasi esattamente collocata là dove lo schermo si piega, rendendola di difficile accesso. È solo un esempio della più grande difficoltà nell’uso di questo dispositivo: il sistema operativo non è del tutto pronto, nonostante i tentativi di Lenovo di metterci una pezza, per esempio con un sistema intelligente per la disposizione delle finestre nelle due metà dello schermo. Ma non sarebbe male avere per esempio la possibilità di oscurare porzioni di schermo, o una tastiera virtuale migliore e più reattiva. Qui emergono tutti i limiti dell’utilizzo di Windows 11 come sistema interamente touch, senza tastiera fisica. Ovviamente l’unicità di questo foldable non aiuta. #### La seconda generazione Passare dai circa 13 pollici della prima generazione (2021) ai 16” di questo nuovo modello significa perdere sicuramente qualcosa in portabilità e in parte anche in funzionalità - se usate il Fold come tablet. D’altra parte crescono le potenzialità di utilizzo e, aumentando lo spazio a disposizione per inserire componenti, aumenta il corredo tecnologico che non è più un compromesso come nel primo modello. La tastiera diventa full-size e c’è anche spazio per una seconda batteria. Il primo pieghevole era stato creato durante il Covid, senza la possibilità di incontrarsi. Questo invece è il frutto di una interazione costante e in persona, oltre che di una grande multiculturalità: è stato sviluppato infatti nei centri Lenovo in America (North Carolina) e in Asia (Cina e Giappone). # We sit together: a journey at the heart of B&O’s design “Lo risolviamo insieme”: nel cuore del design di Bang & Olufsen Lo storico brand tecnologico ad alto tasso di design si avvicina al centesimo compleanno. Ma non smette di guardare al futuro: abbiamo visitato la sede di Struer. 1. Ehi Siri, accendi il giradischi! E il giradischi Beogram 7000, ==uno degli ultimi modelli== prodotti da Bang & Olufsen sul finire del ventesimo secolo, effettivamente parte, con il vinile che prende a girare sul piatto, senza che nessuno abbia toccato un singolo tasto. Una luce soffusa si accende sulla chaise longue accanto. La musica si diffonde nel grande soggiorno. Che è un vero soggiorno, ma non un soggiorno vero. La Beo Home è la casa ideale e fittizia costruita dalla celebre azienda danese di elettronica Bang & Olufsen, per dimostrare come la sua filosofia sia quella “di adattarsi all’utente”, spiega Jette Nygaard, Comms Specialist, Brand & Heritage. E come i suoi dispositivi interagiscano con altri, in un circolo virtuoso di flessibile funzionalità: con le tende che scendono per creare il buio quando si guarda un film sul grande Beovision Harmony, che poi ruota per orientarsi verso il tavolo durante il pranzo; la musica nel bagno dove si può anche guardare la tv su uno schermo antischizzo Aquavision - “questo dimostra la nostra capacità di integrare prodotti di altre aziende”, sottolinea Nygaard; l’esperienza quasi magica di pescare il vinile del prim Greatest Hits dei Queen, metterlo su un ripiano e sentire la versione digitale che parte sugli speaker ottagonali da muro Beosound Shape. In casa B&O, dove nel 2025 si celebra il centenario dalla fondazione, tutto questo non è una novità. Il telecomando Beolink 1000 del 1982, spiega Nygaard, consentiva già di gestire riproduzione audio e video comodamente dalla poltrona; poco più tardi veniva integrato il controllo diretto delle luci di casa. 2. Kresten Krab-Bjerre da piccolo ascoltava i Doors sul giradischi di famiglia, ovviamente Bang & Olufsen , di cui oggi è Director, Head of Creative. Il suo percorso personale l’ha poi portato qui. Da ragazzo lavorava nell’azienda di fabbricazione di utensili di famiglia quando si è iscritto a ingegneria meccanica. “Volevo capire come funzionavano le cose che facevo”, spiega lui. E quando poi ha voluto approfondire l’aspetto umano della progettazione, ha studiato design industriale nel Regno Unito. Bang & Olufsen, dove ingegneria, design e artigianalità sono tre pilastri fondamentali, è da trent’anni la sua casa. È lui che accompagna *Domus* nella cosiddetta Big Room della nuova sede di Struer di B&O, 25mila metri quadrati ricavati da un ex stabilimento, dove lavorano circa 500 persone e sulle pareti della mensa si susseguono le foto dei dipendenti che nel corso di quasi un secolo hanno accumulato almeno ==25== anni di anzianità aziendale. Apre le danze Peter Bang, manca invece l’altro fondatore, Svend Olufsen, scomparso a 52 anni e troppo presto per avere il suo posto su questa parete. Le regole sono regole e valgono per tutti, anche per i fondatori, nel democraticissimo e severamente scandinavo regno di Danimarca. Le due ali della Big Room - che è parecchio big - sono occupate da un lato da un setting che potrebbe stare bene in una fiera, con una esposizione dei nuovi prodotti di B&O in teche e ambienti fittizi ricostruiti ad arte; dall’altra parte invece una raccolta di storici dispositivi dell’azienda, dove si riconoscono alcune icone. Krab-Bjerre indica il BeoSound 9000 di David Lewis, il lettore cd verticale di fine anni Novanta, che per primo valorizzava l’artwork dei dischi, dando una rilevanza all’aspetto visuale della musica che dall’iPod in poi (2001) diamo per scontata. Oltre a permettere uno shuffle continuo di musica tra diversi album, un’altra cosa che oggi diamo per scontata, all’epoca lo era molto meno. “È un oggetto che fa quello che ti aspetti che faccia”, dice il designer, spiegando che questo è un principio di progettazione fondamentale per lui. “Cerco di fare cose così”. A pochi metri, incorniciata, la lettera del ’72 firmata da Philip Johnson con cui il Moma elenca gli apparecchi di Bang & Olufsen che entravano a far parte della sua collezione. Questa non è semplicemente una vetrina, o il ricordo di glorie passate per una azienda che guarda potentemente al futuro. È anzi quasi un imperativo: quello di continuare a creare dispositivi senza tempo, oggi come ieri. Perché le tecnologie cambiano, sottolinea Krab-Bjerre, “ma il comportamento delle persone non cambia”. E l’ambizione è quella di creare prodotti che possano essere utilizzati per sempre. Un aspetto a cui l’azienda danese tiene molto, anche per questioni di sostenibilità - e per giustificare sicuramente prezzi che la pongono decisamente nella fascia di lusso dei produttori di tecnologia. “Se lo fai nella maniera giusta, allora hai creato un’icona”. Al centro della Big Room è in scena il presente dell’azienda e del suo processo di progettazione, con mockup e prototipi e una versione “aperta” in modo da potere osservare la complessa architettura elettronica interna di schede verdi e circuiti, tutti che raccontano com’è nato e come si è sviluppato l’impressionante BeoSound 90 (che costa circa 135mila dollari), il cui stampo in alluminio adagiato su un fianco è come una navicella spaziale atterrata sul suolo della Danimarca occidentale. Ma è il suo fratello più piccolo, il Beosound 8, il vero protagonista della conversazione. È su quest’ultimo che Krab-Bjerre si sofferma, passando in rassegna diversi prototipi, sollevandoli e coccolandoli come si farebbe con un bambino; illustrando le varie possibilità di posizionamento - con stand da terra, da tavolo, o da parete; mostrando come il diffusore possa cambiare completamente aspetto - con una predominante in legno, o in alluminio, o diversi colori - grazie a una serie di elementi magnetici che si sganciano e riagganciano con un clic. “Questo è il design più flessibile per la vita moderna” ==Most flexible design for modern living== spiega l’Head of creative. Le scelte cromatiche e di materiali sono perfettamente coerenti con l’eredità di B&O e con gli altri speaker con cui il Beosound è imparentato, come il più grande Beosound 28 – “per la prima volta dagli anni Ottanta, stiamo costruendo una vera e propria lineup, una famiglia di prodotti”, sottolinea Krab-Bjerre. La finitura della parte inferiore, che lo fa somigliare a un proiettile o a un piccolo razzo se girato a testa in giù, porta la chiara firma di Factory 5, l’impianto per la lavorazione dell’alluminio a poche centinaia di metri da qui, dove elaborate procedure industriali, compresa la complessa filiera dell’anodizzazione per colorare i dispositivi, incontrano la sapiente attenzione al dettaglio accumulata nel corso di un secolo di esperienza; qui è l’umanità di chi trasmette conoscenza nel prodotto a fare fare la differenza e anche davanti all’automazione dei robot pare di assistere all’opera di attentissimi artigiani. In questa gigantesca sede c’è un’altra “big room”, dove si possono vedere ancora elementi del vecchio impianto che sorgeva qui prima del 2017, con i binari sopraelevati o la macchinetta per quando la timbratura del cartellino ancora non sembrava un concetto obsoleto. In questa stanza non ci sono però prodotti o dispositivi, ma persone. Che siedono insieme e insieme partecipano alla nascita delle sublimi creazioni di Bang & Olufsen. “Sono orgoglioso quando abbiamo successo come team”, spiega a *Domus* Krab-Bjerre. Una cosa molto scandinava, che sarebbe difficile da pensare lontano da qui. “Ma è come ci insegnano a lavorare da quando siamo piccoli”, sottolinea lui. Il processo che va dall’ideazione di un nuovo prodotto all’inizio della sua fase di produzione, racconta, impiega circa sei mesi. In questo lasso temporale, chi si occupa del design e chi dell’ingegneria e chi del suono lavorano fianco a fianco, anche insieme ai colleghi di altri reparti ancora, con un tiki-taka che porta alla definizione di gruppo del progetto laddove in qualsiasi altra grande azienda tecnologica ci sarebbe un continuo rimpallo tra diversi team, trincee, barriere, i classici “non si può fare” del reparto di ingegnerizzazione. “Noi ci sediamo insieme, lavoriamo insieme e risolviamo insieme i problemi”: questo succede dal giorno uno, in un processo che complessivamente dura due anni; a quel punto il prodotto sarà pronto per essere consegnato. “Deve essere speciale”, dice Krab-Bjerre, e la ricetta di B&O per riuscirci è appunto questa compenetrazione tra design e ingegneria, con un tocco di artigianato, che rende possibile la magia. Da un secolo. 3. Nel 1945, a guerra oramai agli sgoccioli, i nazisti fanno saltare la fabbrica di Bang & Olufsen. L’azienda era nata esattamente due decenni prima nella fattoria degli Olufsen e all’epoca si era distinta per le sue radio innovative. È la ritorsione contro le attività di supporto alla resistenza durante il conflitto, con il coinvolgimento di ==Olufsen== e la produzione in segreto di un apparecchio radio portatile (la “phone book radio”) per i partigiani danesi. La fabbrica prima rasa al suolo e poi alacremente ricostruita viene raccontata da una serie di foto nella vasta area dedicata a B&O del museo di Struer, dove l’azienda è nata. “Difficile trovare qualcuno che non sia in qualche modo connesso con l’azienda”, mi dicono tutti di questa cittadina sonnolenta affacciata sulla costa. Dopo la guerra, B&O per risollevarsi deve essere concreta. Così si lancia nella produzione dei rasoi elettrici, all’epoca popolarissimi, per uomini e donne. Nel 1950 il primo prototipo di televisore. Ma la svolta più grande arriva a metà del decennio. Grazie a una osservazione difficile da lasciar passare, quella del critico Paul Henningsem. Il quale fa notare alle tante (all’epoca) aziende di radio e tv danesi che mentre il design della nazione sta decollando, il suo comparto di tecnologia da consumo resta nelle forme ancora troppo all’antica. Bang & Olufsen reagisce lanciando sul mercato il Capri 514, un televisore compatto dalle linee modernissime, con uno schermo curvato in modo da essere anti-riflesso, ancora oggi un esempio chiave nel design di Bang & Olufsen. L’anno successivo, nel 1959, Helge Franke Morthensen disegna la radio Mini Moderne 606 K. La B&O che conosciamo in qualche modo nasce lì e inizia così il percorso che l’avrebbe portata nell’olimpo del design. “Mi è stata data ogni libertà che un designer possa immaginare”, avrebbe dichiarato Jacob Jansen, uno dei grandi innovatori del design di Bang & Olufsen, che guidò dalla metà degli anni Sessanta firmando giradischi ancora oggi ricercatissimi sul mercato del modernariato (il Beogram 4000, recentemente reimmaginato con il modello 4000c), sistemi Hi-Fi (Beosystem 5000). Quella di Bang & Olufsen è una grande storia di design, unica nel mondo del prodotto e dell’elettronica di consumo, che passa dalle radio ai telefoni, dai tv alle tastiere per computer (ideata da David Lewis e mai entrata in produzione), telecomandi e anche un celebre apribottiglie (prodotto ancora oggi e disegnato nel 1937!) fino agli speaker connessi di oggi, ma anche alle cuffie e agli auricolari. Un grande passato, che però B&O relega anche quasi metaforicamente nel piano interrato di un museo: come a dire che il passato è glorioso, ma l’importante è l’oggi. A Struer l’incredibile patrimonio di B&O è una soddisfazione, ma anche un continuo sprone a fare ancora di meglio oggi e domani. Ma soprattutto un’indomabile voglia di essere ancora rilevanti. ==Il finale fa cagare== In una foto del museo di Struer, … … … BIG ROOM Sede 2017 25,000 sqm ==How many >>> we sit together== Designer / focus beolab 8 Most flexible design for modern living (why) - stand - change covers Design: - we sit together - being timeless aka longevity (w upgrade) - heritage + modern living - designed to be a family (first time since the 80s) bullet-like shape - modularity Design + engineering + craft “It has to be special” “I’m proud when we have success as a team” 3. Parti dalla sede distrutta Museo? Struer e b&o >>> storia nazi Storia Nazi, rasoi, 1954. XTRA How many Faces wall (who didn’t make it bang or Olufsen?) Beosound 9000 Beolab 90 (no compromise) Classics refurbished “I try to do things that when you see them, they’ll do what you expect them to do” Factory 1 ??? Anodize Dancing robots Unique as a plant in the world [^1]: l # Porsche Design ha creato una versione speciale del nuovo smartphone pieghevole Honor *Debutta in Europa Honor Magic V2, anche in edizione limitata Srs in collaborazione con il marchio di Lipsia, che lo “pimpa” in una versione dai tanti rimandi motoristici.* [Link per le foto](https://drive.google.com/drive/folders/1oL5kXAFXVCN-x7cIGg3ZqpXic-aHv8EZ) Dopo l’ingresso nel mondo degli smartfold nel XXXLINK, Honor rilancia con V2, uno smartphone pieghevole che - spiega il brand - condensa il lavoro di due anni e incorpora più di 200 innovazioni tecnologiche. Il debutto europeo del dispositivo è accompagnato da una edizione limitata firmata Porsche Design, presentata nella Porsche Experience Center di Lipsia: il nome completo è Porsche Design Honor V2 Rsr. La collaborazione viene descritta come un incontro tra “l’approccio umano centrico di Honor” e “l’estetica purista e funzionale di Porsche Design”, oltre che l’unione tra le “ultime innovazioni” del brand tecnologico e “l’eleganza senza tempo” di quello tedesco. Ci sono tanti rimandi alla lunga storia di car design di Porsche in questa versione del dispositivo, con uno sbilanciamento forte nel recupero della matrice più audace, sportiva e - diciamolo - positivamente aggressiva del marchio. Per esempio la curva del cofano della 911 è stata presa come riferimento per la linea di volo della parte posteriore dello smartphone, ma è tutta la narrazione che circonda la collaborazione a puntare su valori comuni come velocità e potenza. Interessante l’idea di lavorare su una presa migliorata per lo smartphone, così da offrire agli utenti “un’esperienza da auto sportiva nel palmo della mano”. La colorazione e l’impiego di materiali unici e all’avanguardia sono le altre caratteristiche peculiari del Magic V2 Srs: il colore è unico per questa versione limitata (Porsche Agate Grey), che usa un innovativo scudo antigraffio (NanoCrystal Shiedl), pesa poco più della versione base (234 grammi contro 231) e la eguaglia nello spessore sotto al centimetro (9,9mm). Tra i dettagli tecnici si legge che la resistenza ai graffi è dieci volte superiore mentre il grado di durezza è superiore a 7 nella scala Mohs. Per il resto, la versione Porsche Design eredita tutte le caratteristiche innovative del Magic V2, tra cui segnaliamo il modulo fotocamera con tre lenti, il sistema di oscuramento che garantisce una visione confortevole anche con uso prolungato, la batteria da 5000mAh e una forte attenzione per l’interfaccia e l’ottimizzazione del software, che erano forse il vero punto debole della versione V1. Del resto, parliamo di un dispositivo con un fattore di forma così estremamente innovativo che stiamo ancora capendo come usarlo e a cosa esattamente ci serva, al di là dell’entusiasmo per una categoria di device che stanno traghettando lo smartphone nella sua nuova era. # Porsche Design “pimps”Honor’s new foldable smartphone in limited edition. #### Honor Magic V2 debuts in Europe, also in a limited edition in collaboration with the German design studio, which "pimps" it in a version with many automotive references. After entering the arena of foldable smartphones in 2023 with the Magic VS, Honor is back with V2, a device that, according to the brand, condenses two years of work and incorporates more than 200 technological innovations. The European debut of the device is accompanied by a limited edition designed by Porsche Design and presented at the Porsche Experience Center in Leipzig: the full name is Porsche Design Honor V2 RSR. The collaboration is described as a meeting between "Honor's human-centered approach" and "the purist and functional aesthetics of Porsche Design", as well as a union between the "latest innovations" of the technological brand and the "timeless elegance" of the German one. There are many references to Porsche's long history of car design in this version of the device, with a strong emphasis on recovering the brand's boldest, sporty and - let's say it - aggressive matrix. For example, the curve of the hood of the 911 has been taken as a reference for the flight line of the back of the smartphone, but the entire narrative surrounding the collaboration focuses on common values such as speed and power. The idea of introducing an improved grip for the smartphone looks interesting, offering users "a sports car experience in the palm of your hand". The color specific to this device (Porsche Agate Grey) and the use of unique and cutting-edge materials are the other peculiarities of the Magic V2 SRS, which uses an innovative anti-scratch shield (NanoCrystal Shield), weighs just a bit more thatn the base version (234 grams compared to 231) and matches it in thickness just under a centimeter (9.9 mm). Among the technical details, the scratch resistance is ten times higher, while the hardness is above 7 on the Mohs scale. Moreover, the Porsche Design version inherits all the innovative features of the Magic V2, including the triple-lens camera module, the darkening system that ensures comfortable viewing even during prolonged use, the 5000mAh battery, and a strong focus on interface and software optimization, which were perhaps the real weaknesses of the V1 version. After all, this is a device with such an innovative form factor that we are still figuring out how to use it and what exactly we need it for, beyond the excitement of a category of devices that heralds a new era for smartphones. # Flipper Zero è una celebrazione della cultura visuale hacker *Oggetto di culto per i geek di mezzo pianeta e tool divisivo capace di mettere a rischio le nostre sicurezze in ambito tecnologico, Flipper Zero è figlio, anche esteticamente, delle controculture che vengono dagli anni ’90.* L’avete visto su TikTok, un simpatico delfino che sblocca portiere delle Tesla, cambia i prezzi sui cartelloni dei distributori di benzina, spegne di colpo tutti i tv di un centro commerciale. Per non parlare di quando un ragazzino in Wisconsin ha costretto al reboot gli iPhone della sua scuola. Per tutto il resto, potete trovare mille altre storie (e tutorial) nelle stanze di discussione di Reddit. Flipper Zero è “il coltellino svizzero delle antenne”, come l’ha chiamato The Verge. Sulla pagina kickstarter che l’ha lanciato (con una raccolta finale di quasi 5 milioni) viene definito come "a portable multi-tool for pentesters and hardware geeks in a toy-like body”. Si può connettere via infrarosso o Bluetooth, via Nfc o Rfid, ha una antenna che “parla” con i dispositivi a frequenza sub-1Ghz (vedi appunto le Tesla) e una serie di piccole porte per connessioni Gpio. Così, riesce a penetrare svariati sistemi, raccogliere dati, spegnere dispositivi. Amazon ha smesso di venderlo, nell’aggiornamento iOS 17.2 Apple ha dovuto inserire una patch per difendere gli iPhone da una vulnerabilità legata proprio al Flipper Zero. Che è un dispositivo che a vederlo così penseresti che sia innocuo sembra un po’ un giochino ispirato all’estetica y2k, una strana versione di un tamagotchi grande appunto poco più di un coltellino svizzero, con pulsanti arancioni e un piccolo schermo retroilluminato sempre in una calda tinta arancio, dove il protagonista è appunto lui, il delfino. “L’abbiamo pensato come un tool educativo per testare le vulnerabilità della tecnologia che usiamo tutti i giorni”, spiega connettendosi dalla Serbia Valeria Aquamine, art director di Flipper Zero. Un dispositivo educativo che è diventato un grande cult nel mondo dell’hacking. E che costituisce, nelle forme e nell’interfaccia, nei colori e nelle scelte grafiche. anche un grande omaggio a tutta la cultura hacker e al cyberpunk. Perché l’idea di connettersi a ogni dispositivo a disposizione a corta distanza e da lì viaggiare in un mondo di dati sembra proprio uscire da un romanzo del William Gibson prima maniera, quello degli anni 80 e della Trilogia dello Sprawl. E gli omaggi a quell’immaginario e a quegl anni sono tanti nel Flipper Zero. A partire dall’idea di “Flipper”, ricalcata sulla figura di Jones, il cyberdelfino usato dall’esercito nel celeberrimo racconto Johnny Mnemonic, pubblicato da Gibson nell’81 e diventato infine un film con protagonista Keanu Reeves nel 1995. Jones è un personaggio tragico, un animale drogato e schiavizzato dalla marina militare, invece il delfino-icona di Flipper Zero, spiega Aquamine, “volevamo che fosse giocoso”. Quindi niente dipendenze e un feeling da delfino-tamagotchi per il personaggio ultra-cute che accompagna l’utente in una serie di illustrazioni deliziose (ed evoluzioni stile Pokemon). Le coordinate estetiche che hanno influenzato il progetto di immagine coordinata del dispositivo sono tantissime e riflettono in pieno il gusto di Aquamine, in bilico tra influenze anni ’90 e suggestioni y2k, e quindi molta fantascienza cyber (*Matrix*) e pre-cyber (i romanzi di P.K. Dick), e poi anime come *Ghost in the Shell* e *Akira*, la pixel art e la cultura giapponese, che si trova anche in alcuni dei font usati sul dispositivo, disegnati a mano, e su tutto il meraviglioso packaging che accompagna il “coltellino svizzero delle antenne” e la sua cover di silicone (ovviamente arancione). “Volevamo che fosse un dispositivo esplicitamente multiculturale”, dice Aquamine. Tra gli altri riferimenti l’art director cita il pwnagotchi, un misconosciuto dispositivo per penetrare reti wifi ispirato sempre ai Tamagotchi, e il Siemens C55, un telefono di inizio anni Zero con uno schermo a 256 colori e una serie di caratteristiche molto avanzate per l’epoca. La retroilluminazione era arancione, colore dominante anche nel Flipper Zero. “L’arancione è un colore caldo”, racconta a *Domus* Roman Galeev, designer di Flipper Zero, spiegando vari passaggi della progettazione del dispositivo, dal riferimento alle superfici di classe A impiegate nel car design allo studio di quelle caratteristiche che contraddistinguono un dispositivo “per geek”, a partire dall’uso di uno schermo piccolo. Il risultato si distacca sicuramente dal design tecnologico mainstream dei nostri giorni, sempre più leggero e impersonale, ma si accosta a tante piccole cose su cui abbiamo messo like emerse nei nostri feed di Instagram in questi anni, gadget d’epoca o pezzi nuovi dispositivi colorati e complessi come il [Playdate](https://www.domusweb.it/en/design/gallery/2022/06/24/playdate-a-game-boy-designed-for-the-netflix-era.html), altri design di Teenage Engineering e altre reinterpretazioni dell’estetica y2k che piace tanto ai Millennial, vedi [le prime generazioni dello smartfold Motorola Razr](https://www.domusweb.it/en/product-news/gallery/2019/11/14/motorola-razr-is-back-with-a-foldable-display.html), prima che le sue linee si banalizzassero per assomigliare a un Samsung Flip. Flipper Zero, frutto del duro lavoro di un team di 50 persone circa, è ancora poco più di un cucciolo, forse un giovane adulto, e già si evolve. Con una versione tutta trasparente, prima di tutto. Fondamentale per il suo futuro, spiegano Galeev e Aquamine, è anche e soprattutto un salto di paradigma, ovvero il trasformare un dispositivo di cui si è parlato tantissimo, forse anche troppo, in qualcos’altro: “questo non è solo un dispositivo, è una piattaforma”, spiegano. Una piattaforma open-source. Il delfinetto può essere infatti nutrito con diverse app che allargano di parecchio il raggio della sua utilità: ce ne sono di legate al mondo dell’hacking, ma anche strumenti di produttività (pomodoro), giochi, un lettore di testi, l’esposimetro e il metronomo e così via. Il delfino vuole nuotare libero e forte, insomma: sarà la community a fare la differenza e sancirne o meno il successo. # Zaza Ramen Zaza Ramen è un ristorante di Milano, in zona Brera e più precisamente nella celebre via Solferino Nel 2024 compie 10 anni Come dice il nome, da Zaza Ramen si mangia soprattutto il ramen, il tipico piatto giapponese di pasta in brodo “L’ho fatto meno grasso e pesante”, racconta il fondatore Brendan Becht, che aveva visitato il Giappone quando lavorava per il grande Gualtiero Marchesi. “Volevo un posto dove si mangiasse bene ma senza essere per forza alta cucina”, spiega lui. Becht è un grande amante dell’arte I suoi genitori sono collezionisti E fin dalla nascita il ristorante ha un programma dedicato all’arte contemporanea Oltre a essere frequentato da artisti e galleristi milanesi o di passaggio per Milano Per celebrare il decimo compleanno l’artista inglese David Tremlett ha realizzato un lavoro site-specific per la parete di ingresso, due disegni che resteranno visibili fino ad aprire. “È un caro amico, lo conosco da quando avevo 16 anni”, spiega Becht. L’idea dell’arte nel ristorante è perfettamente coerente con la sua filosofia. In Giappone il ramen è una pietanza che spesso si mangia velocemente. Zaza Ramen invece un luogo di convivialità, dove si può mangiare anche al bancone e l’arte è di casa. Convivialità. # Una scala di 100 gradini come simbolo di un luogo dove si lavora a un futuro migliore Ha aperto a Berlino Haus 1, la casa colorata rinnovata da Mvrdv come parte del più grand progetto degli Atelier Gardens, che trasformano ex studi televisivi in un hub dedicato a iniziative con un impatto positivo sul pianeta e sulle nostre vite. Di Alessandro Scarano --- Una grande scala abitabile di colore giallo di 100 gradini, che salgono direttamente dal cortile all’ultimo piano della rinnovata Haus 1. Un elemento funzionale che è anche una scultura e si pone come il simbolo del rinnovo non solo di una palazzina di metà anni novanta prima anonima, ma dell’intero complesso degli Atelier Gardens, potente operazione di rigenerazione di un’area con affaccio sulla sterminata spianata dell’ex aeroporto berlinese di Templehof. Andiamo per ordine: siamo in un distretto berlinese dalla vocazione industriale, nella parte meridionale della città, incastrato tra la nuova area fu malfamata e ora cool di Neukölln (ma non la sua parte più cool) e appunto lo storico aeroporto dismesso nel 2008 e poi diventato parco (e nuova icona della città). Nella collegatissima Berlino qui passa solo un bus, il 246, e saltuariamente. Niente U-Bahn, niente S-Bahn. Di fronte allo stabilimento dei celebri biscotti Bahlsen, Fabrix, azienda di sviluppo e investimento britannica specializzata in operazioni di questo genere, sta trasformando il sito centenario degli ex studi televisivi Berliner Union Film in un campus di sei acri dedicato all’impresa sociale e ambientale, e all’arte, senza perdere la vocazione cinematografica. Qui hanno trovato una casa il gruppo di branding Thinkfarm, il movimento per la lotta climatica Fridays for future e l’organizzatore di programmi educativi Travelling U, tra gli altri. Il masterplan coinvolge lo studio berlinese Hirschmüller Schindele Architekten e i britannici Harris Bugg Studio che curano la parte di landscaping, ed è guidato da Mvrdv. Lo studio olandese si è preso anche in carico la rigenerazione della palazzina di ingresso del complesso, che prima era circondato da un muro, abbattuto come segnale di apertura verso la città. È così che una anonima costruzione della seconda metà degli anni novanta è stata trasformata in Haus 1, un edificio di 1747 metri quadri concepito come “landmark dell’area” e che si pone come “nuova visual identity dell’intero campus”. L’edificio di quattro piani è stato completamente ripensato. Prima cosa con la colorazione gialla, che spicca nel paesaggio monotono di questa periferia berlinese (“Perché giallo? Perché sì, poteva essere qualsiasi colore”, spiega Mvrdv). Al piano terra un caffè immaginato come spazio di co-working e incontro, con un concierge che accoglie i visitatori del campus e li indirizza se necessario. Salendo gli spazi dedicati agli uffici. Il rooftop viene completamente reinventato, con un padiglione in legno clt e un giardino che si affacciano sulla spianata di Tempelhof e sulla città di Berlino, con il suo accrocchio di edifici riconoscibilissimi ma dove gli elementi simbolici sono rarefatti - che poi è la gloria di questa città vastissima, spesso weird, per vocazione modesta e sempre più gentrificata dal massiccio afflusso di giovani expat. In lontananza, si scorge chiaramente l’inconfondibile torre della tv di Alexanderplatz. Tutto il progetto è stato realizzato con grande attenzione alla sostenibilità dell’edificio, ovviamente, vista la sua vocazione del luogo di cui fa da cancello. Materiali biobased e legno sostenibile si alternano a quelli ad alta componente di riciclo. Tutte le luci sono led ad alta efficienza energetica. In una giornata nevosa di fine novembre, nel ristorante degli Atelier Gardens, subito di fianco agli studi di posa dove qualche settimana fa Bmw ha girato un *commercial*, con un menù che fa largo uso di elementi di riuso secondo una filosofia zero-waste, Klaas Hofman di Mvrdv racconta a *Domus* il progetto del campus, del nuovo edificio e prima di tutto della gigantesca scala. “Prima di tutto risolve una questione pratica, quella dell’uscita di emergenza”, spiega l’architetto. E poi ha un altro aspetto funzionale, aggiunge, ovvero quello di creare un nuovo accesso all’ultimo piano, che nella sua configurazione rinnovata è pensato per ospitare eventi - anche la conferenza stampa di Haus 1 si è tenuta lì. Sicuramente l’elemento più affascinante del progetto della scala, oltre alla sua dimensione, alla particolare collocazione che la trasforma automaticamente in elemento simbolico, e alla particolare configurazione a segmenti - doveva essere circolare, all’inizio, premette Hofman- è la sua abitabilità. Lungo i 57 metri di lunghezza sono stati disseminati tavolini tondi e sedute. Il parapetto è alto e non poteva essere altrimenti per motivi di sicurezza, aggiunge, ma resta l’affaccio notevole sul panorama berlinese - e su quello del campus stesso. Farà zig zag tra gli alberi, racconta Hofman, questa scala che nelle intenzioni di chi l’ha progettata è “iconica, ma non monumentale”. Con l’arrivo della primavera sarà il verde infatti a inondare l’area degli ex Bufa. In linea con il ridisegno del paesaggio fatto da Harris Bugg Studio, sono stati piantati oltre 57 nuovi alberi e 8300 piante. Sono solo un terzo di quelli che vedremo qui. Un intervento non semplicemente estetico, o che renderà lo spazio più godibile per i visitatori, ma anche funzionale e simbolico, di “resilienza climatica” dell’area, che si accompagna a iniziative come il sistema per il recupero delle acque piovane e il già menzionato focus sul cibo sostenibile servito nella canteen degli Atelier Gardens. “Soil, soul, society” - suolo, anima e società - citazione dell’attivista britannico Satish Kumar, è il motto del campus, che si è posto la missione di coltivare il suolo, non solo metaforicamente, per la trasformazione sociale ed ecologica di Berlino e oltre. # Icona, la nuova cabina fototessera Pininfarina x Dedem La cabina che da sessant’anni fotografa volti rinasce adattandosi al presente: accessibile, tecnologica e sostenibile. E con una imprescindibile identità italiana. Di Alessandro Scarano ~[PININFARINA_CABINA FOTOTESSERE DEDEM – Dropbox](https://www.dropbox.com/scl/fo/shy54een5dnpmoia88spv/h?rlkey=x7tk97mbyy0ns7983ml2c6yqj&dl=0)~ Oggi è facile farsi un selfie. Si alza una mano e si apre una app, click e via. Sessant’anni fa la storia era tutta diversa. Ci volevano 5 minuti per lo sviluppo e le foto, rigorosamente in bianco e nero, risultavano appiccicose al tatto. Sarebbero rimaste così fino all’avvento del digitale. E indovina? I puristi della fototessera non la presero neanche troppo bene. Lo spiega Silvio Angori, Coo di Dedem, l’azienda che per prima ha installato una cabina per fototessera in Italia (era il 1962), nella storica sede di Pininfarina, icona globale del progetto italiano, a Cambiano, alle porte di Torino. L’occasione è la presentazione di Icona, una nuova cabina, “un oggetto che viene dalla storia e va verso il futuro” (Sandro Lama, direttore marketing Dedem). Oggi Dedem ha 3600 cabina installate in tutta Italia, per un totale da fare girare la testa, 10 milioni di foto tessere stampate all’anno. Dal 2024, circa metà delle 150 nuove cabine saranno Icona. Pininfarina ne ha curato il nuovo disegno e Nicola Girotti, responsabile product design dello storico marchio partito dall’automotive, spiega che tre sono i punti focali di questa nuova cabina, che ricorda una L rovesciata e si presenta con un’estetica tra l’high tech e un certo brutalismo da film di fantascienza anni Ottanta, con schermi, linee dritte e forme stondate, e inserti metallici tra le predominanti cromatiche del bianco e del nero. La vecchia cabina squadrata e rivestita in simil-legno, con la grande scritta fototessera sulla sommità, e un feeling da fotoautomat berlinese, può rimanere sullo sfondo. Tre dunque i punti focali nell’approccio di design di Icona: il primo è l’accessibilità. Sparisce il vecchio sgabello metallico che lascia spazio a una seduta a scomparsa. Ora è più facile usare la cabina per chi ha mobilità ridotta. “Un sistema AI regola la fotocamera in base all’altezza del viso”, dice Girotti. Poi c’è il passaggio dalla pulsantiera al touchscreen, con l’eliminazione di ogni pulsante fisico. Questo darà sicuramente la possibilità di ulteriori funzioni e personalizzazioni in futuro. Oltre ad avere previsto un grosso sforzo nel ridisegnare l’intera esperienza. Infine, un occhio all’aspetto ambientale: la cabina è realizzata con acciaio ed elementi stampati in 3d, ed è pensata per essere il meno energivora possibile. Il tutto nasce dal lavoro congiunto tra Dedem e Pininfarina durato quasi due anni. “Non facciamo solo auto”, dice Silvio Angori, Amministratore Delegato di Pininfarina. Anzi: “Diamo realtà ai sogni”, sottolinea, spiegando la traiettoria di un marchio che nasce con l’automotive, si estende poi al product design e all’architettura e oggi allarga al design delle esperienze. E questa cabina che ricorda un mondo “in cui non c’erano i selfie”, o meglio erano un’altra cosa, conclude, “non è un prodotto, ma una intera esperienza”. # Cosa ce ne facciamo dell’audio e cosa Sony non ha capito Gli auricolari flagship Wf-1000xm5 hanno una resa sonora encomiabile. Ma ascoltare non ci basta più, vogliamo interagire e queste cuffie lo dimostrano perfettamente. Una premessa: l’ultima versione delle Wf-1000x, le cuffiette di Sony oramai alla loro quinta versione (la terza totalmente senza cavetti), hanno un suono incredibile. Difficile trovare qualcosa di meglio sul mercato. Non soltanto per la resa dell’audio e per la capacità di restituire in maniera dettagliata e insieme emozionante passaggi musicali complessi con suoni a cascata, ma anche perché a differenza di tanti altri auricolari che puoi comprare oggi, questi riescono a dare una fisicità alla musica che, in tempi di digitale a tutti i costi, è rara. Il sito specializzato Soundguys ne elogia la complessiva quantità e soprattutto la capacità di creare “un soundstage”. Senza dubbio va riconosciuto a Sony anche di avere finalmente raggiunto il migliore compromesso tra misure e performance. La versione precedente degli auricolari era ancora un po’ ingombrante e qualcuno poteva sentire fatica nell’indossarle a lungo, per peso e vestibilità, ora invece scatola e bussolotti hanno trovato una dimensione perfettibile ma totalmente soddisfacente. Ed è comparso anche un pairing button fisico sulla custodia per semplificare l’associazione con nuovi dispositivi. *DIDASCALIA FOTO Le cuffie vengono vendute in una deliziosa scatoletta in materiale riciclato e sono fornite di tre taglie aggiuntive di gommini in schiuma di poliuretano, per il miglior isolamento passivo dal rumore possibile.* Le Wf-1000xm5 supportano il nuovo standard Bluetooth 5.3, standard comuni come Sbc e Aac, l’efficiente Le e il Ldac, il formato di Sony ad alta qualità.. Le vere gioie in qualche modo finiscono qui. Che è un bel punto dove finire: le Sony wf-1000xm5 sono forse le migliori cuffiette sul mercato se ascoltate molta musica e di generi diversi. E magari qualche podcast. ==**Hardware e software** (questa parte possibile dida per una gallery interna di tre foto)== ==La app di Sony Headphones è il vero scrigno delle meraviglie dei dispositivi del brand e soprattutto delle serie flagship Wh (cuffie) e Wf (questi appunto, gli auricolari), con una cascata di opzioni che permettono di personalizzare a fondo l’esperienza d’uso e di ascolto del dispositivo.== ==Ecco per esempio speak-to-chat, l’opzione che permette di interrompere l’ascolto semplicemente parlando (un po’ un problema in realtà se canticchiate o avete il raffreddore); il motore di miglioramento sonoro Dsee; la possibilità di collegare funzioni diverse ai comandi touch. Da questo modello, c’è anche la possibilità di connettersi a due diversi dispositivi e di utilizzare un movimento della testa per rispondere a una telefonata (ed è subito fantascienza).== ==C’è un equalizzatore che si disegna in base ai vostri gusti, utilissimo in realtà perché gli auricolari Sony hanno un suono out-of-the-box che accontenta pochissimi e in maniera variabile (basta un giro tra Reddit e recensioni). E poi c’è il suono adattativo, asset intelligente in continuo miglioramento che fa la differenza sui dispositivi Sony, adattando la modalità di ascolto a cosa state facendo, o dove siete.== ### Perfette per ascoltare Possiamo dire che se usassimo gli auricolari con le stesse funzioni delle cuffiette cuffiette del Walkman negli anni ’80, ovvero per ascoltare musica (o magari un podcast, o l’audio di un film), gli auricolari flagship di Sony sarebbero semplicemente perfetti. Ma oggi gli auricolari sono degli strumenti multifunzione che devono passare da un impiego all’altro nella maniera più fluida possibile. Devono rispondere alla nostra necessità di interagire costantemente con la tecnologia. E quindi le cuffiette ci servono non solo per ascoltare, ma anche per parlare. Usiamo gli auricolari per chiamare e mandare messaggi vocali e nonostante una opzione che lavora proprio su una migliore resa della voce che puoi selezionare nell’app, non è raro il caso in cui la voce catturata dalle Wf-1000xm5 - soprattutto mentre invii un breve vocale o se parli velocemente - risulti annichilita o si dissolva sullo sfondo. ### Il senso dell’audio Ma il problema principale di utilizzo dei Wf-1000xm5 è la “trasparenza”, ovvero quell’opzione che permette di scavalcare la barriera acustica degli auricolari e ascoltare il mondo esterno come se non li stessimo indossando, passando fluidamente dal paesaggio elettronico e tempestoso dell’ultimo di Aphex Twin a una chiacchiera con la vicina ultrasettantenne sullo stato di riparazione dell’ascensore condominiale (che poi è anche la sintesi di come viviamo in questi anni Venti). In questo, le AirPods Pro di Apple, che hanno un suono ottimo ma comunque meno esaltante dei flagship Sony, lavorano alla perfezione. È proprio sull’interazione con l’esterno che danno forse il loro meglio: basta un click sullo stelo e sei dentro alla tua musica (o puoi usarli anche solo come deterrente per i disturbi esterni, [come abbiamo raccontato qui](https://www.domusweb.it/it/design/2023/02/15/silenzio-contro-larroganza-del-rumore-ci-restano-solo-le-airpods-.html)); con un altro click, è come non averli addosso. Dopo averli usati, cambia la tua aspettativa su cosa aspettarti da un paio di auricolari. Apple ha messo sul tavolo una soluzione coerente con la filosofia della tecnologia di consumo di oggi (che non a caso ha definito più di chiunque altro): il dispositivo c’è, ma non è pesante, non è un ingombro, sparisce velocemente all’occorrenza. È fluido, come tutto in questi giorni di continuo adattamento e adattabilità. È sempre abilitante, mai una zavorra. Sony riduce l’esperienza di “trasparenza” sulle Wf all’opzione “quick attention” con cui si può interagire con il mondo esterno per qualche secondo tenendo premuto un auricolare con il dito. Ma la resa non è fantastica, è oggettivamente scomodo - pensate se dovete avete qualcosa in mano - e la sensazione è che sia troppo poco, come se ci si potesse solo affacciare alla finestra, e non entrare e uscire di casa liberamente. **Nota**: accoppiando gli auricolari (ultimo firmware al momento della recensione, 2.0.1) con un iPhone 15 Pro, abbiamo notato talvolta l’audio sganciarsi per qualche secondo da una o entrambe le cuffiette e qualche pausa di troppo nel passaggio di modalità del suono adattivo. Sono problemi che non avevamo riscontrato nei modelli precedenti e che ci auguriamo saranno presto risolti da aggiornamenti software. # Random International at Nxt [Images high res](https://www.dropbox.com/sh/1itrg4kooct73zj/AAC6AcQclSoVBoUuABtqJr9qa?dl=0) # E se lo smartphone fosse una it bag? Honor trasforma il telefono in un wearable Il nuovo concept di telefono foldable del brand è pensato per essere indossato con un alto margine di personalizzazione, grazie a display intercambiabili come quello creato dalla grande artista cinese Xiao Hui Wang, che *Domus* ha incontrato. Si chiama Honor V Purse il nuovo concept phone del brand tecnologico, che strizza l’occhio alla moda ma anche all’arte con questo nuovo dispositivo presentato all’Ifa di Berlino. Il telefono si ispira ai bestseller della moda di oggi, le borsette. Una serie di accessori come cinturini e catene lo rendono trasportabile e soprattutto indossabile. Ma l’elemento di personalizzazione più rilevante è costituito dai display always on intercambiabili, che possono riprodurre il pattern di una vera borsetta, ma anche paesaggi o figure. Ovviamente, possono essere scelti a seconda del momento della giornata, dell’outfit, della giornata e così via. Abbiamo visto negli ultimi anni crescere la tendenza del telefono portato a tracolla, grazie ad apposite custodie. Ma lo schermo è sempre nero o al massimo tracciato dalle linee essenziali degli always on display come li abbiamo conosciuti fin qui. Honor vuole sparigliare le carte e farne un elemento di forte personalizzazione del telefono, con questo concept in cui lo schermo si allunga sotto una elegante cornice che contiene le fotocamere. I display possono anche animarsi con l’oscillazione del telefono e all’ambiente circostante, riproducendo effetti realistici in base alle informazioni raccolte dal giroscopio o dal sensore di luminosità, o permettendo a chi le disegna di esplodere la propria creatività. “Il futuro della moda è digitale”, spiega Giles Deacon, tra i volti della moda coinvolti da Honor per questo importante lancio, che corre in parallelo a quello dell’Honor Magic V2, il telefono pieghevole più sottile del mondo (meno di un centimetro di spessore). Abbiamo avuto spesso occasione di raccontare sulle piattaforme digitali di *Domus* gli esperimenti della moda in ambito tecnologico, trascinate sicuramente [dall’hype del metaverso](https://www.domusweb.it/it/design/gallery/2021/09/28/dalla-passerella-a-fortnite-quando-la-moda-si-fa-nel-metaverso.html). In questo caso è la tecnologia che guarda alla moda come un riferimento, anche con un interessante uso di materiali sostenibili. Una mossa coraggiosa per Honor, che così consacra la sua presenza nel campo della creatività. Come ha avuto modo di sottolineare il capo marketing dell’azienda Guo Rui durante un panel che si è tenuto a Berlino in concomitanza con la presentazione del Magic V Purse, arte e design sono un asset sostanziale per Honor. Lo dimostrano i Global Design Awards di Honor Talents, che sono nati nel 2020 e coinvolgono più di 40 paesi e 160 università al grido di “ispira il futuro”. Durante il panel, l’artista multimediale Yunuen Esparza, che negli ultimi anni si è specializzata in opere in realtà aumentata, ha presentato i due display che ha realizzato per il Magic V Purse, ispirati uno al Messico, dove è nata, e il secondo alla regione indonesiana di Bali. Esparza è giudice di Honor Talents, come lo è l’artista interdisciplinare cinese Xiao Hui Wang, anche lei presente a Berlino, che ha una lunga collaborazione con Honor, come racconta a *Domus* in tedesco – divide il suo tempo tra la Cina, dove due musei portano il suo nome a Shanghai e Suzhou, e la Germania. “Hai sempre usato il telefono per una funzione, come mandare un messaggio o una mail”, spiega l’artista, “ma le nuove tecnologie trascendono queste funzioni”. Il risultato sono dispositivi che danno via a esperienze completamente diverse. E modi completamente diversi di viverli. E indossarli. Per il display che ha realizzato per V Purse, Wang ha preso ispirazione dalla filosofia cinese e dai concetti complementari dello yin e dello yang: l’immagine always on che compare all’esterno del telefono è adatta a un mondo frenetico e sociale in cui bisogna essere trendy e sul pezzo, mentre quando lo smartphone viene aperto, ci si immerge in una sfera di intimità. Non a caso, questa opera d’arte in forma di display è intitolata *Deep breath*. Se Honor ha fatto la scommessa giusta, ne vedremo sicuramente molti altri in futuro. # I nuovi speaker vintage di JBL sono “disegnati per la realtà” La nuova linea Authentics recupera il passato ma parla direttamente con il presente, spiega a *Domus* il vicepresidente design di Harman, di cui Jbl è parte, Christian Schleunder. Foto:[JBL Authentics: What your home looks like says a lot, what it sounds like says more](https://news.jbl.com/en-CEU/228862-jbl-authentics-what-your-home-looks-like-says-a-lot-what-it-sounds-like-says-more) Jbl è un brand molto popolare. Lo è soprattutto grazie ai suoi speaker portatili che abbiamo visto ovunque e in mano a chiunque negli ultimi anni. È anche il marchio che ha firmato un’operazione nostalgia come[[ il comparto audio della Panderis ]]e al tempo stesso un prodotto innovativo come primi auricolari con uno schermo sulla custodia (Jbl Tour Pro 2). Il suo ultimo lancio lo rimette in dialogo [con oltre 75 anni di storia](https://www.domusweb.it/en/news/gallery/2021/04/07/the-most-iconic-jbl-products-of-all-time.html). I nuovi speaker connessi Authentics, una lineup di 3 pezzi di diverse dimensioni, riproducono musica con un suono immersivo grazie all’audio spaziale e al Dolby Atmos sul modello 500; sono le prime al mondo che possono attivare sia Alexa sia Google Assistant – gli assistenti vocali, spiega il brand, giocano un ruolo importante nell’85% delle case europee. Soprattutto gli speaker si distinguono dalla gran parte della produzione recente di Jbl perché presentano “echi discreti del design retrò degli anni Settanta”. Anche qui ci sono delle ricerche tra i consumatori a supporto della scelta – Jbl non sembra muoversi mai a caso: per il 64% degli intervistati europei il design è importante ed è fondamentale nel creare un’esperienza audio “immersiva e raffinata”, e per il 55% ha importanza che l’aspetto abbia dei richiami vintage. È la newstalgia, il trend che fonde linee retrò e nuove tecnologie, spiega Christian Schluender, SVP e General manager del design del colosso dell’audio Harman (di cui Jbl è parte). Lo fa dal palco dell’evento che Jbl ha organizzato per il lancio di Authentics, nei giorni di Ifa, la più grande fiera di tecnologia di consumo d’Europa, dove un tempo il brand (con Harman) aveva una presenza centrale. Ma post-Covid le cose sono cambiate e si preferisce una presentazione per i media in cui il racconto del prodotto si intreccia a dj set e a un divertente karaoke, in una location cool che è un ex garage multipiano di un’area nobile di Berlino (dietro Savignyplatz), con inviti mirati a giornalisti e influencer internazionali, che si mescolano sotto cassa o in fila per un drink. L’approccio al design di Harman (e quindi di Jbl) è cambiato con il Covid, spiega a *Domus* Schluender. Prima di tutto sotto il punto di vista del processo, perché il team di prodotto, i progettisti e gli ingegneri, è da sempre “molto internazionale”. E di conseguenza è sempre stato molto internazionale anche l’approccio alla creazione dei nuovi dispositivi. La pandemia ha infranto la magia del melting pot. “We’re going to expand the international footprint of the design team”, annuncia. Ma non c’è solo questo. Per via del Covid e della congiuntura geopolitica, dice, il design sta cambiando. “People are looking for simplification”: prodotti che fanno cose precise e specifiche e lo annunciano in modo semplice. ==Semplicità è la nuova parola chiave del design==. C’è anche necessità che l’estetica si semplifichi. “Simple shapes, simple standards, simple forms, even the transition surface development, very very simple”. A questo si aggiungono autenticità e un desiderio crescente per materiali “reali”, come il legno. ~~Più ovviamente lo scoglio della sostenibilità, per cui i prodotti devono spesso trovare compromessi per ridurre l’impronta sull’ambiente, per esempio usando materiali di riciclo. Questo è parte di una transizione. “Probabilmente torneremo a fare quello che facevamo prima tra cinque anni”, spiega.~~ I riferimenti della progettazione arrivano dalla moda e dall’arredamento. Ma anche dal car design. Schluender elogia [Polestar e il suo approccio progettuale](https://www.domusweb.it/en/design/2023/04/13/polestar-inside-the-studios-of-the-design-led-ev-company.html), “their stunning, beautiful, simplified vehicles, the simplified exteriors shapes, and the color palettes; the super simple assembly, and these beautiful little accents like the little seat belts” sono tutti oggetto di elogio da parte del SVP di Harman. Per lui, spiega, Polestar in questo momento “è sul piedistallo”. Ma Polestar, un brand nato da una costola di Volvo, ha fatto forza del fatto di non avere una storia alle spalle. La posizione di Jbl è esattamente all’opposto. “Yes, we have this heritage”, risponde il SVP. “But if you look at the design itself, we were able to add those accents and build on that right so we simplify that and build on it”. E cita la storia delle Jbl L100, le casse degli anni Settanta che hanno ispirato in maniera profonda i nuovi speaker Authentics. Quei diffusori erano il frutto del sogno di un designer californiano, che “wanted to change the world by changing the speakers that everybody had”. L’idea originale del suo progetto all’epoca, che introduceva le griglie in schiuma colorata a quadratoni (quadrex), implicava una particolare tessitura, non era del tutto realizzabile, e trova ora compimento nella linea Authentics. *[foto JBL L100]* “It’s still relevant today because it was simple”, dice Schluender, per ribadire quanto già detto sull’importanza della semplicità. E ancora: “we can pull the heritage of something simple to the future”. Schluender, con cui chiacchieriamo nel retropalco, interrotti ogni tanto dai soundcheck che toccano volumi assordanti, è un uomo dalla voce profonda e dalla parlata sciolta, capace di snocciolare concetti dirompenti, a tratti anche controintuitivi, come se fossero una ovvietà. Come si dice in questi casi, è un designer con-una-visione, puntellata dai dati delle tante ricerche condotte da Jbl, fondazione essenziale delle scelte progettuali di Harman. Quando c’è da discutere dell’estetica degli Authentics, che arricchiscono lo spunto delle L100 con profili dorati e un centro di controllo appositamente disegnato, angoli stondati e griglie in schiuma quadre scura, Schluender spiega come alla base dell’ethos di Jbl ci sia la libertà di esprimere se stessi. “E dove ti esprimi meglio, se non a casa tua?”. Per questo il riferimento non è “some artificial Nordic decor”, commentando ironicamente “it's stunning, and the world just isn't made that way”. L’idea alla base degli Authentics è stata invece quella di disegnare un dispositivo che potesse stare in una piccola casa di Hong Kong come a Londra come in uno spazio più ampio. “So we really designed it for people that have all different types of houses. That design is meant to blend in so the color palette is extremely neutral. But we're still able to have those beautiful splashes of detail like a gold color, that dark color”. Gli Authentics non sono un pezzo per designer, ribadisce. E poi, snocciolando con totale semplicità una frase che potrebbe essere tranquillamente lo slogan di questa nuova linea Jbl: “It's designed for reality”. # Freitag lancia uno zaino che non sembra Freitag, ma lo è nell’anima ALT1: Con il nuovo zaino Freitag rinuncia ai teloni per camion e fa un salto di paradigma ALT2: Il nuovo zaino di Freitag è un salto nel futuro e una grossa scommessa #### L’azienda svizzera racconta a *Domus* il suo prodotto più rivoluzionario dai tempi del debutto, che rinuncia ai teloni dei camion. Diverso da tutto quello che ha fatto fin qui, eppure coerente con i valori fondativi. Nel 2024 Freitag lancerà sul mercato un nuovo zaino, che introduce un notevole scarto rispetto all’immaginario che il brand di Zurigo ha costruito in tre decenni di vita. Questo zaino non impiegherà infatti i variopinti teloni per camion che hanno reso Freitag celebre da Berlino a Tokyo, da Bangkok a Milano. Eppure, costituisce la più rigorosa evoluzione nella filosofia di un brand da sempre in prima fila per la sostenibilità. Il Mono[pa6] è uno zaino realizzato con un unico e solo materiale, il poliammide 6. Che è facilissimo da riciclare, una volta che il suo ciclo di vita si conclude. A differenza appunto dei teloni dei camion. C’è un nome più semplice con cui il poliammide è universalmente identificato da quasi un secolo: nylon. Per lo zaino, Freitag ha cercato un tessuto in poliammide idrorepellente sul mercato, ma alla fine la scelta è stata quella di svilupparlo internamente. Il risultato - ottenuto con il supporto ==di un partner di Taiwan== - è un nylon longevo e con membrana esterna idrorepellente, laminato a tre strati, completamente in PA6. “È molto robusto anche se un po’ meno robusto dei teli per camion”, spiega Anna Kerschbaumer, Product and Services Lead di Freitag. Ci sono voluti due anni e passa per arrivarci. “Ma ora abbiamo un materiale destinato a diventare non un rifiuto, ma una risorsa”. ==foto zaino e dettagli== Lo zaino Mono[pa6] al lancio sarà nero, è prevista un’altra colorazione nella seconda parte del 2024. Di PA6 sono costituiti tutti i componenti, non solo il corpo principale: i lacci e le cerniere (al tiretto sono state aggiunte delle fibre di vetro); la clip del sistema di chiusura. Kerschbaumer sottolinea che quest’ultimo elemento, in particolare, è stato oggetto di molti studi e ripensamenti. Non era facile progettare una chiusura efficace usando solo il monomateriale. Ed è in monomateriale anche la piccola tasca modulare sganciabile che c’è sulla parte frontale, che diventa una comoda borsetta o può essere attaccata agli spallacci per contenere smartphone o documenti. Uno zaino forse non era il prodotto più semplice da disegnare per un debutto con un nuovo materiale. “L’abbiamo scelto perché gli zaini sono molto popolari”, dice Kerschbaumer. Siamo di fronte a un salto di paradigma per Freitag. Non è la prima volta che il brand svizzero cerca altre soluzioni per i materiali dei suoi prodotti. Recentemente è stata lanciata una lineup che impiega un tessuto in PET riciclato dalle bottigliette, con nuove uscite previste per l’autunno. Qualcosa di un po’ diverso dal solito e più facilmente riciclabile. Ma sul tessuto nero c’è sempre un ritaglio di telone che è la firma del marchio. ==foto zaini in pet== Rispetto alla linea Tarp on Pet, lo zaino Mono[pa6] è sicuramente una mossa audace. Più futuristica. E un pugno nell’occhio rispetto alla visual identity che il marchio svizzero ha costruito in tre decenni - ricorre quest’anno l’anniversario. Ma è coerente con la filosofia del brand. Anzi ne rappresenta un esito quasi matematico. Una evoluzione coraggiosa, seppur lineare. Qed. Fin dal suo inizio l’azienda fonda sul riuso la sua produzione. Avendo cominciato così tanto prima che il termine sostenibilità riempisse le agende dei dipartimenti marketing dei marchi di tutto il mondo e le relative campagne di comunicazione, paradossalmente quell’aspetto è finito per passare sotto traccia nell’identità del brand. E di certo altri sono stati più lungimiranti e scaltri a spendere il concetto di sostenibile nella costruzione propria identità (citofonare Patagonia se avete dei dubbi). Se Freitag non fa immediatamente rima con sostenibile, ci ha messo sicuramente uno zampino, creandosi una aura da brand di design, per non dire di lusso: rispetto alle estetiche lo-key e talvolta sciatte dei tanti paladini ecofriendly presenti e futuri, l’azienda di Zurigo si è imposta con un tripudio di colori scintillanti; con prodotti che sono industriali e al tempo stesso pezzi unici tutti diversi l’uno dall’altro, eppure riconoscibilissimi; con un packaging che ha fatto scuola anche in Oriente. ==foto packaging== Il marchio nasce nel 1993 su intuizione dei fratelli Markus e Daniel Freitag. L’ispirazione sono le borse dei messenger in bici americani. I materiali sono quelli che i fratelli vedono tutti i giorni, sulla tangenziale davanti a casa: i teloni dei camion. Ma anche camere d’aria usate e cinture di sicurezza. ==Freitag è una distopia urbana ballardiana, trasustanziata in design==. Le prime borse le vendono su un ponte che immette alla tangenziale, a ridosso dei binari della ferrovia. Oggi nel quartiere resta come presidio il celebre flagship store costruito con i container, con una torre che fa da osservatorio su una Zurigo che inesorabilmente si trasforma. Gli unici soldi che Daniel e Markus chiedono ai genitori è per una macchina da cucire industriale, vuole la leggenda di Freitag. Siamo a metà anni Novanta, non bisogna pensarla come una startup di oggi. Non ci sono incubatori, non ci sono angels, non ci sono bocconiani freschi di master pronti a inscatolarti nel template di un business plan, gli unicorni sono ancora soltanto animali fantastici. Il brand nasce nel salotto di una casa di ventenni e cresce grazie al passaparola. ==foto store con container== Difficile trovare molti esempi più rappresentativi del design industriale anni Novanta di questa azienda in cui “designer” non è solo chi disegna il progetto, ma anche chi sceglie e taglia le porzioni di telone che vengono assemblate nella fabbrica di Oerlikon. Variopinti patchwork di soluzioni dal basso dove si incontrano qualità del progetto e orgoglio della diversità, i prodotti Freitag non stonano in un mercatino del sabato come tra le mura di un nuovo mall asiatico di lusso. Lo usa l’amica architetta che ancora si veste come una raver degli anni d’oro e il ragazzetto che senza un capospalla Off-White e le Suicoke non mette piede fuori di casa. Lo usa chi si veste 100% usato o con materiali sostenibili e certificati. Freitag è un prodotto radicale, la cui aura risplende ancora oggi nella scia dell’utopia della crescita infinita del clintonismo; nasce negli anni di benessere in cui le controculture diventarono il mainstream, quello spirito è irreversibilmente parte della sua filosofia. Ma per affrontare il presente dell’Occidente sempre più povero e l’ansia di un mondo che viaggia verso la catastrofe, serve qualcosa di diverso. Qualcosa di più. ==foto fabbrica== Lo zaino che uscirà nel 2024 è solo la punta dell’iceberg nell’oceanica vastità di ricerche e iniziative dell’azienda per innovare non solo sé stessa, ma anche il suo mondo di riferimento. Freitag, spiega a *Domus* la sustainability officer Bigna Salzmann, ha aperto un tavolo con i produttori di teloni per camion per individuare nuovi materiali che sostituiscano quello attuale e che siano interamente circolari. Solo così anche la materia prima delle borse e degli zaini diventerà riciclabile. Si sperimenta con Pet, Tpu, Bio Pbs e altri. L’obbiettivo è usarne 500 tonnellate entro il 2030. Per questa data, Freitag vuole essere presente sul mercato con il 99% di prodotti circolari, spiega Salzmann. ==foto piattaforma di scambio borse usate== Intanto, sono state messe in pista una serie di iniziative che allungano il ciclo di vita delle borse già in circolazione. Attraverso store e online, Freitag incoraggia la riparazione e solo nell’ultimo anno ne sono state eseguite 6737. In più una apposita piattaforma, ispirata ironicamente a Tinder nell’interfaccia, permette di “swipare” le Freitag di chi non le vuole più per proporre uno scambio con la propria che magari non piace o ha annoiato. L’anno scorso ne sono state scambiate in questo modo 6784. E poi ci sono iniziative per affittare le borse per una vacanza di qualche settimana, anziché comprarle e lasciarle inutilizzate, e l’introduzione di un programma “stile Netflix” per avere sempre una borsa pagando un fisso mensile. Tutto cade sotto l’ombrello di una azienda che si sta spendendo nel costruire un “design intelligente per un futuro circolare”, dice Bigna Salzmann, che definisce il Mono[pa6] come “una sfida”, che è sicura aprirà nuovi orizzonti per il brand. *Lo zaino Mono[pa6] sarà disponibile nel 2024 in punti vendita selezionati al prezzo di 360 CHF.*   # Leandro Erlich mostra chi siamo diventati e cosa cerchiamo nell’arte La mostra dell’artista argentino a Palazzo Reale è un luna park che raggiunge l’apice nel suo riflesso social su Instagram. Ed un ottimo specchio di noi stessi [Dropbox - ERLICH_MILANO - Simplify your life](https://bit.ly/ERLICH_MILANO) ### la mostra Batiment ### cos’è instagrammabile Text # Galaxy Fold unveiled: the good, the bad and the Samsung The new device represents a radical revolution that will be perceived as a natural evolution of the species. Super powerful and not cheap, gorgeous when unfolded but odd-looking in its smartphone form, it will hit the shelves in April. It’s not magic as your first smartphone. But still magic. And less controversial than ten years ago, when a touch screen with no physical button, for example, wasn’t for everybody. Samsung has launched its first foldable smartphone. Its name is simply “Galaxy Fold”. From a user point of view, it’s not a revolution, but a radical evolution - a mutation of the species, a darwinian leap forward of the phenotype that everybody knows as “smartphone”. Basically, it’s a retro-looking 4,7” display huge smartphone with ugly bezels (why, Samsung, why!) that will easily fit in large pockets. When the user wants to “enlarge” its experience, the phone folds up like a book and every open activity seamlessly continues on the bigger, 7.3” flexible AMOLED display, the “Infinity Flex Display”. That can be a music video on YouTube, navigation through Google Maps, or maybe you just need to text someone without pausing the last episode of *Sex Education* on Netflix. The Galaxy Fold is a smartphone that pops up and becomes a tablet with multitasking capability of 3 contemporary apps on screen. The Galaxy Fold will be available from April in 4 different colors, Space Silver, Cosmos Black, Martian Green, and Astro Blue, at a cost of $1980. The incredibly high price tag is justified not only by the novelty of this long-expected innovative smartphone but also by the overload of tech specs that this device comes with: 6 cameras, 2 internal batteries, a next-generation AP chipset and a gigantic slice of RAM, 12GB, that will guarantee, Samsung declares, “PC-like performance”, plus 512GB of internal storage. “Samsung Fold answers skeptics that say that everything possible has been done”, declared DJ Koh, Samsung CEO, launching the device in San Francisco. The design of the Galaxy Fold represents a huge break from the past. New materials and new construction processes were invented to make this device possible, al declared DJ Koh. For example, the hinge that links the two internal displays and makes all the foldable process possible, it’s something radically new, never seen on any device before, achieved with a series of interlocking gears, totally conceived in the smartphone’s case. It’s the glory and the most delicate part of the Samsung Fold, the first consumer device of a completely new category. Only further tests and reviews will tell us if this is the masterpiece that was expected from the Korean brand to crown its lead in the smartphone market or the kind of innovation that will require more time to be refined and find its state-of-the-art condition. # Moshi Arcus, lo zaino fotografico che non diresti Cosa possiamo chiedere, oggi, a uno zaino fotografico? Di essere spazioso abbastanza da portare non solo quello che ci serve per fotografare, senza risultare troppo ingombrante; e che ci permetta di estrarre velocemente la macchina fotografica, senza incastrarci tra cinghie e spallacci quando indossiamo un cappotto o una giacca da pioggia. Soprattutto, dovrebbe essere bello: il che significa non assomigliare alla maggior parte degli zaini fotografici che conosciamo. **Moshi** è una azienda specializzata in accessori per smartphone, tablet e portatili, che si distingue per un design curato che si allontana parecchio da quello supertecnico e anonimo a cui ci siamo abituati. Lo zaino fotografico **Arcus** incarna in pieno questo stile: diresti che sia tutto, tranne che uno zaino per macchine fotografiche, con le sue linee vintage ispirate, come dice il nome, a quel genere particolare di nubi basse che assumono una forma di arco allungato, e per via della particolare combinazione di materiali, tra il rivestimento impermeabile in tessuto che sembra tela, i dettagli in pelle vegana, gli elementi in lega di zinco. Insomma, è molto bello, da vedere e anche da toccare, sia nella versione nero carbone, sia in quella marrone vintage, sia in grigio titanio (quest’ultima è quella che abbiamo provato). Il **Moshi Arcus** è uno zaino stretto e allungato di dimensioni discrete (ha una capienza di 20 litri), con uno scomparto imbottito nella calotta superiore e una grande tasca dedicata al trasporto di portatili, latpop, quaderni o documenti che si apre con una comoda zip. C’è un tascone sul davanti e un’altra più piccola sullo schienale, dove riporre in sicurezza **smartphone** o documenti mentre sei in movimento. Soprattutto, c’è un’apertura laterale che ti permette di accedere al modulo dove riporre la **macchina fotografica** – modulo da acquistare a parte. Una volta inserito, lo spazio disponibile nello zaino non è tanto: la custodia per le cuffie, un maglione e poco più. **Lo scomparto per la fotocamera**. Ovviamente, uno zaino del genere non è adatto a trasportare una **medio formato** o una **reflex** di grandi dimensioni. È invece preziosissimo per fotocamere a telemetro **Leica** o per le mirrorless, come la formidabile **Fujifilm X-T3**; l’aspetto vintage del bagaglio si sposa anche perfettamente con quelle linee che riprendono elementi di design da certi modelli di macchina fotografica degli anni Settanta e Ottanta. La capienza è discreta, permettendoti di portare due obbiettivi (o un obbiettivo e un flash) oltre al corpo macchina con la lente innestata. Chiunque mastichi di fotografia e abbia provato un po’ di zaini, sa benissimo che la tasca laterale è un bel vantaggio per estrarre velocemente la fotocamera, ma che al contempo la tracolla rende la manovra complicata, e che solo un monospalla può permettere di compiere con velocità questa operazione. Ma gli zaini monospalla sono terribilmente scomodi, oltre che discretamente brutti. L’**Arcus** di **Moshi** non è pensato per il fanatico della fotografia, l’uomo che vedi a tutti gli eventi carico come un albero di Natale. È invece uno zaino godibilissimo per chi ama la fotografia, perfetto per portare con te un corpo macchina e i suoi accessori fondamentali, oltre a tutto quello che ti serve per una giornata di esplorazione in città o nella natura. # Hitman 2: l’Agente 47 è tornato per farti impazzire Il reboot continua con location sempre più belle e qualche aiutino in più. Ma se stai cercando un gioco mordi-e-fuggi, guarda da un’altra parte Parigi, Hokkaido, Sapienza. Ma anche la nave da crociera finta. Ti dicono niente? Sono le missioni che ti hanno rubato ore e ore di vita del reboot di **Hitman**, che si era presentato [timido al suo esordio](https://www.gqitalia.it/news/2016/04/01/il-nuovo-hitman-lultima-frontiera-del-videogioco-sbattimento/?refresh_ce=) con una inedita struttura a puntate, pubblicate mensilmente, raccogliendo plausi crescenti ed entrare nel **gotha** dei migliori videogiochi del 2016. Ed ecco il nuovo capitolo, tutto in una sola portata. L’**Agente 47** cambia bandiera (Warner Bros e non più Square Enix) , cambia città (Miami, Mumbai e la Colombia, tra le altre), ma la ricetta resta la stessa del precedente capitolo: **Hitman 2** è un videogioco super stealth in cui devi creare la migliore occasione per assassinare il tuo obbiettivo, tessendo una ragnatela che si potrebbe squagliare con il minimo errore. Ti travesti, uccidi silenziosamente, rubi armi e utensili, avveleni a go-go, ma sempre con estrema discrezione. Fai di tutto, ma senza farti notare, altrimenti sei condannato: insomma, niente a che fare con quegli Assassin’s Creed in cui zappavi di mazzate l’obbiettivo, gli frugavi nei ricordi e scappavi lesto dalla finestra con un’orda di giannizzeri inferociti alle tue calcagna. **Hitman 2** riprende le cose buone del titolo del reboot (a parte i cutscene non animati, quelli sono orrendi) e ritocca in meglio le dinamiche di gioco senza pregiudicarne gli equilibri. C’è una bella storia di spionaggio e ci sono tanti nuovi scenari, alcuni vastissimi (Miami ha due *setting*, quello di Mumbai è tra i migliori della serie), nuovi costumi, nuove armi, situazioni da sabotare e lavandini da lasciare aperti. Soprattutto, per la prima volta, c’è una voce che ti orienta nella missione, per non lasciarti completamente solo nei giorni in cui la tua letalità creativa è in secca. “Sappiamo che ci sono molti giocatori che hanno il mito della missione perfetta, ma non funziona proprio così”, spiegano **Maurizio De Pascale** (Chief Technology Officier) e **Marta La Mendola** (Level Designer) di IO Interactive, la casa di sviluppo che c’è da sempre dietro a Hitman. “Ci sono molti modi per recuperare situazioni apparentemente compromesse”, aggiungono. Rivelo loro che mi è capitato di salvare compulsivamente come mai in nessun altro gioco per potermi dare una chance di tornare indietro. E non penso di essere stato l’unico, anzi: Maurizio sorride. “Ti perdi una parte del divertimento, una delle cose più belle è proprio riuscire a trovare una soluzione quando tutto sembra perso”. E quando chiedo ai due italiani di IO Interactive quale consiglio darebbero a chi come me con Hitman va in sbattimento totale, mi rispondono che l’arma più letale di Hitman è “la pazienza”. Perché a differenza del 99% dei videogiochi in circolazione, in questo il tempo è una caratteristica fondamentale. Bisogna solo sapere cogliere il momento giusto. E se proprio non ce la fai più, puoi passare alla modalità multiplayer, dove vestirai i rilassanti – si fa per dire – panni di un cecchino, con la modalità **Sniper Assassin**, o in una gara all’ultimo assassinio nella modalità **Fantasma**. Abbiamo provato Hitman 2 con un codice fornito da Warner Games. Il gioco è disponibile per PlayStation, Xbox One e PC dal 13 novembre 2018.# Red Dead Redemption L’attesissimo western di Rockstar Games è ambientato in quella terra tenebrosa in cui i sogni lasciano il passo alla lotta per la sopravvivenza. Riusciranno i giocatori a sopravvivere alla disillusione? Dal ghetto alle ville delle celebs? In Grant Theft Auto 5 si può fare e basta un indirizzo a dimostrarlo. 3671 Whispymound Drive è la nuova casa di **Franklin Clinton**, uno dei tre protagonisti del videogioco più venduto della storia. Arrampicata sulle colline di **Vinewood** – leggi Hollywood –, con due piani, garage, piscina infinity con panorama sulla metropoli di Los Santos, è dotata di ogni confort. E Franklin è un fuorilegge che si gode la vita. In **Red Dead Redemption 2**, il nuovo titolo Rockstar Games che arriva 5 anni dal lancio di quel fenomenale GTA, la musica è del tutto diversa. Quella di Dutch van der Linde è una banda di fuorilegge duri, sporchi e disperati, che si muovono di accampamento in accampamento, di regione in regione, senza tregua e senza pace. Nel 1899 l’era dei pistoleri e del selvaggio West sta finendo e non c’è più posto per loro, alfieri di un modo di vita che non è più sostenibile. Vivono come poveracci, campano di espedienti, le danno e le prendono in continuazione. Ma felici? Felici non lo sembrano mai. ## La trama. Nonostante quel “2“ nel titolo, questo è il **prequel** – ambientato nel 1899 – del primo capitolo, che prende luogo dodici anni più tardi e dove il protagonista è **John Marston**, che qui ritroviamo. Di lui sappiamo che lascerà la banda, si ritirerà con la moglie Abigail e il figlio e poi, per salvare la sua famiglia, darà la caccia agli ex compagni, **Dutch** compreso. Quella è un’altra storia, soprattutto è una storia: quella di un uomo che torna in sella al suo cavallo per combattere i fantasmi del passato e garantire un futuro a se stesso e alle persone che ama. In RDR2 così tanta “storia” forse non ce n’è. Negli anni di Fortnite un videogioco ha davvero ancora bisogno di una trama? Red Dead Redemption 2 non ne ha veramente una che ti inchiodi al joypad. Come in GTA, la progressione nel gioco è un continuo rimbalzo tra sequenze narrative – missioni, se vogliamo ancora chiamarle così –, alcune più lunghe, altre più brevi. Ma se lì c’era un filo conduttore, questa è una immensa fuga nel ventre dell’America che si sta civilizzando. Si spara tanto e si fa tutto quello che ti aspetti da copione: rapine al treno e alle diligenze, evasioni. Sfili anche con le suffragette e ti prenderai almeno una colossale sbronza. E poi, puoi divagare, ovviamente. Il mondo è “open” e vastissimo, grande il doppio di GTA 5, anche se come avrai immaginato per la maggior parte occupato dalla natura selvaggia e dalle piantagioni. ## Arthur Morgan Cosa resta, dunque, dopo tutto questo? L’epica. Quella di un gruppo di sbandati che attraversa l’America. E un protagonista, **Arthur Morgan**, su cui non c’è poi forse tanto da dire. Abile pistolero, con **Dutch** praticamente da sempre, incarna in pieno il senso di un gioco che non vuole davvero arrivare da qualche parte, ma dove si cerca di fare durare il viaggio il più a lungo possibile. **Arthur** ha vissuto l’epoca d’oro della banda, che ai tempi doveva essere una via di mezzo tra l’allegra combriccola di **Sherwood** e i Magnifici Sette, con un po’ di **Toni Negri**. Ma in Red Dead Redemption 2 non giochi a quegli anni fantastici, quelli degli ideali e della speranza. Qui siamo nel 1899 ed è un anno di disillusioni, sopravvivenze, faide, e ci si arrabatta per campare, lasciando i sogni per un mondo migliore a riposare sotto il cuscino. Arthur, con il suo taccuino, con i suoi amori persi negli anni, con questa sua indolenza per cui sembra sempre seguire un po’ tutti senza volere mai segnare una strada tutta sua, è il personaggio perfetto per questa storia: un osservatore. Ma, nonostante la meraviglia per le sue doti balistiche, esaltate da replay bianco e nero che talvolta rischiano di fare tracimare nel grottesco un gioco in verità meno caricaturale e iperbolico rispetto alla media di Rockstar Games, nonostante il buon senso che lo anima, nonostante tutti i bellissimi vestiti western che gli puoi comprare, al netto di tutto questo, immedesimarsi nel signor Arthur Morgan è davvero difficile. ## Il gioco Come all’inizio degli **Hateful Eight** o in **Revenant** di Inarritu, il gioco si apre tra distese innevate, sostenuto da una colonna sonora davvero eccezionale (forse la cosa migliore). Il gameplay non si discosta troppo dal primo RDR, scendendo però molto in profondità sulle dinamiche di crescita del personaggio, della cavalcatura e dell’accampamento, con una serie di progressioni da gioco di ruolo e un vasto supporto dell’intelligenza artificiale. È sempre un po’ un GTA western, ma un cavallo è una creatura più complessa di un’automobile e l’interazione con gli altri personaggi si sviluppa in modo elaborato e convincente, sia quella che incontrerai scorrazzando per la mappa, sia quelli della banda. Ci sono anche **Bill Williamson** e **Javier Escuella**, oltre a **John Marston**, l’uomo che dà loro la caccia una decina di anni dopo. E dopo tutte le sparatorie, le avventure, e il reciproco guardarsi le spalle che proverai qui, un po’ ti chiederai come ha fatto a trasformarsi nel loro cacciatore di taglie. ## Un voto: perché giocare a RDR2? Il primo Red Dead Redemption raccontava di un uomo che faceva i conti con il passato. Nel secondo, invece, devi fare i conti con il futuro. Che non c’è. La banda di Dutch non ha pace e non ha casa. Ovunque si stabiliscano, i sognatori di un tempo si trasformano implacabilmente in assassini, e prima o poi devono ricominciare a fuggire. È un gioco senza tregua, enorme e bellissimo, ma anche terribilmente crudele, come se in Civilization ti consegnassero l’Impero Romano all’inizio del suo tramonto. Però cosa c’è di più bello della libertà, quando sei l’ultimo che se la può ancora prendere? # Life is Strange 2, la recensione di GQ. L’inizio di un grande western contemporaneo? In fuga. È la più classica delle storie americane, quella di **Life is Strange 2**. E forse la più attuale. Abbandonate le atmosfere cliché della prima stagione, che ci ha conquistato una navigazione diacronica tra gli stereotipi del college, si ricomincia dalla **West Coast**. E dalle foreste dello stato di **Washington**. Come i pionieri e più recentemente tanti americani che dopo la grande crisi di inizio millennio si sono trovati a percorrere a ritroso le orme delle carovane, cercando una nuova vita lontano dalla città, tra la natura. Come **Into the Wild**. Come il **Walden** di **Thoreau**. Ma nell’**America** di oggi: due ragazzini, americani figli di un messicano, fuggono dalla legge. E si trovano a farlo nel pieno degli Stati Uniti di oggi, quelli del sogno all’inverso, quelli del muro e della diffidenza. Come in un western, imparano a combattere per sopravvivere. E forse, alla fine, diventeranno dei veri criminali. Il primo episodio, ancora più che **Life is Strange 1**, è più di un videogioco, e forse qualcosa di meno. Si ride, ci si commuove, ci si diverte. E disegni anche. Non ti annoi, se scendi a patti con il racconto del gioco, che procede lento come una passeggiata estiva, per farsi improvvisamente brutale. Per amarlo ti ci devi immergere totalmente, le **cuffie** e giocare su un portatile sono la scelta consigliata. Tutto parte come un altro racconto di gente che in fondo odia le feste. Ma qui la vicenda prende all’improvviso una piega che ti incolla alla poltrona, senza perdere il lirismo. Se sarà tutto all’altezza del primo capitolo, ne uscirà un grande romanzo americano. E non poteva non essere un western. Abbiamo provato **Life is Strange 2** su **Microsoft Xbox X** con a un codice download fornito da Koch Media. # It’s the creativity, stupid! 21 artisti di Milano accendono l’Apple Store di Piazza Liberty Artisti o creativi? Ventuno creativi per una domanda, **[Cosa farai domani Milano?](https://urldefense.proofpoint.com/v2/url?u=http-3A__www.apple.com_it_retail_piazzaliberty&d=DwMFaQ&c=B73tqXN8Ec0ocRmZHMCntw&r=XiwN6p8gdn41AZzzgImZ-vsMyi52hX-WlIcEFdaIN0E&m=UZ5ERw6cQ6CJg7-qxk9m0wqdXvbEedKK1x1bXk5wUHc&s=xjnlvwEGB40wqKtnt-V8AIHlifos_c5kXn0zkqdsToI&e=)**. Ventuno progetti di giovani talenti locali – foto, video, illustrazioni e musica – che accompagnano il lancio del primo store di Cupertino a Milano città, ventuno risposte che da oggi animano le lettere che campeggiano sulla copertura di Apple Piazza Liberty, prima dell’apertura del 26 luglio. Che non vuole essere un semplice negozio, ma uno statement. E ribadire senza mezzi toni l’affinità elettiva tra la Mela e la creatività. Soprattutto qui, a Milano. Quindi bando alle superstar, anche se due tre nomi mainstream – soprattutto tra i musicisti, com’è ovvio che sia – ci sono, come Charlie Charles, l’uomo che sforna i beat per **Ghali** e **[Sfera Ebbasta](https://www.gqitalia.it/show/musica/2018/04/21/sfera-ebbasta-lintervista-innamorato-si-ma-del-mio-business/)**, il rapper Mecna, o Olimpia Zagnoli, l’illustratrice che oramai trovi davvero dappertutto, [anche sulla maglietta della tua ragazza](https://it.marella.com/abbigliamento/oz-fever-olimpia-zagnoli). Ma questa campagna vuole soprattutto celebrare una generazione di artisti e creativi che Milano la rendono grande ogni giorno, con il loro lavoro. I militi relativamente più o meno ignoti della città della moda, del design, dell’architettura, che si muovono all’ombra delle torri che qui sono sempre più numerose, in un numero che un decennio fa non avresti neanche immaginato, da **Citylife** a [quella di **Rem Koolhaas**](https://www.gqitalia.it/lifestyle/eventi/2018/04/19/la-torre-di-prada-60-metri-darte/) per **Fondazione Prada**. “Ho scoperto di conoscere la maggior parte dei creativi partecipanti alla campagna, gente che a Milano potrei incontrare quando esco la sera. Il livello è alto e la selezione sembra quasi naturale, come se fosse stata utilizzata una scena esistente in città e trasferita sulla barricata dello store”. Incontro [**Gio Pastori**](http://www.giopastori.com/) nel suo nuovo studio, in una corte a due passi dal **Birrificio Lambrate**. Siamo a inizio luglio e Milano è caldissima; gli scatoloni accatastati sono il segno del recente trasloco e una bottiglietta d’acqua fresca d’ordinanza. Gio è il prototipo del professionista che Apple ha scelto per questa campagna: trasuda creatività a ogni parola; non se la tira da star; è entusiasta di fare parte di un progetto collettivo. E soprattutto, ha parecchio da dire su quello che fa, e quello che fa non è scontato. Gio è un maestro del collage, si trova più a suo agio a ritagliare con la lama che a fare uno schizzo con la matita. Un’arte antica che pratica in maniera molto contemporanea. E così, mentre navighiamo nella sua collezione di carta, da quella per la frutta trovata in Marocco ai fogli acquistati da Modulor, il tempio dei creativi a Kreuzberg, e disfa scatoloni e apre quaderni per mostrarmi cose, racconta del contatto con Apple, di quando gli è stato proposto il tema e della sua istintiva risposta. **Mi ritaglierò spazi di libertà** è la sua personale declinazione del tema comune assegnato a tutti i Magnifici Ventuno, *cosa farai domani Milano*. Un collage creato in maniera tradizionale, “analogica”, e poi assemblato su iPad Pro, di cui ha prodotto anche una versione animata talmente lisergica e fuori dal tempo che sembra uscita dritta dritta dal film **Yellow Submarine** dei Beatles. “Un viaggetto”, lo definisce lui sorridendo. Ma anche, in qualche modo, la storia della sua vita, quella del ragazzino che nato a Milano si trasferisce a qualche chilometro dalla grande città, a Treviglio, dove trascorrerà l’infanzia in mezzo al verde. Un posto dove fuggire dalla città, anche soltanto con la mente. **[Bea De Giacomo](http://www.beadegiacomo.com/instagram/)** è una fotografa e nel suo portfolio vanta collaborazioni con The New York Times, Wallpaper* e Vogue Italia. “Ho una pessima memoria, ma guardando una foto mi riaffiorano alla mente suoni, odori, emozioni”, racconta, ricordando quando ha iniziato a fotografare, verso i vent’anni d’età. E aggiunge: “A un certo non usavo più la fotografia solamente per questo, e da lì ho capito che sarebbe diventato il mio lavoro”. Bea non è di Milano, ma è nata in un paesino vicino al lago, al nord della metropoli. Un mondo parallelo. “Il primo skate dal vivo l’ho visto a 15 anni”, racconta lei. “A casa mia non prendeva nemmeno MTV!”. **Guarderò oltre la superficie del tempo** è il titolo del suo progetto. Per Apple, ha fotografato i riflessi di un immaginario Naviglio. “Molti considerano Milano una città caotica, invece per me è possibile ritagliarsi dei momenti di contemplazione, in cui stare fermi a osservare”. Per realizzarlo, ha cambiato le sue abitudini, abbandonando il medio formato, che predilige, per scattare tutto con iPhone X. “È stata la mia prima volta”. Dalla Darsena al sottobosco creativo all’ombra del Bosco Verticale. Il quartiere Isola è quello prima popolare poi dei fermenti di inizio millennio, della riqualificazione urbana e oggi dei bar e ristoranti un po’ chic, un po’ hipster. Una zona dove la creatività sta di casa. Circondato dalle sue creature di plastilina, che sono la sua arte, **Stefano Colferai** mi accoglie nel suo studio, dove mi accomodo di fianco alla replica cartoonesca di un hamburger multistrato. “Failing in football career I embraced plasticine”, recita il suo Instagram; davanti ai miei occhi (e quelli del panino) ricompone la sequenza del quadro animato che ha prodotto per Apple: un omino che dorme su una poltrona, e un codazzo di pesci che gli fa volare intorno, maneggiandoli come in uno stranissimo teatrino delle marionette. **Piglierò i pesci** è il suo contributo all’affresco di Milano dei 21 artisti scelti da Apple. La lettera “A”, come sottolinea lui stesso. La sua arte, così di primo istinto, sembra quasi anacronistica. Nell’epoca del tutto digitale questo suo modellare creature direttamente con le mani, dare vita a un blocco di materia informe ha il fascino di una meraviglia dimenticata, fa scaturire le memorie di quando da bambino tantissimi anni fa anche tu passavi i tuoi pomeriggi così. Stefano ne ha fatto un mestiere. La sua opera è partita da un’idea – anzi, all’inizio tre –, poi la plastilina, un numero infinito di scatti fotografici, trecento, realizzati con meticolosa cura – lui si dilunga per svariati minuti nel tentativo di farmi capire come facciano i pesci ad accelerare quando si tuffano, nel video – e tutto finisce con il montaggio sul MacBook. Due settimane di lavoro, in tutto. Con una sfida, perché fare volare gli oggetti, con la tecnica che utilizza lui, è molto complicato. “Posso anche fare fatica, ma solo la plastilina mi fa fare quello che voglio”, racconta. Tutto inizia quando ha 18 anni e va via a Londra, “Per cercare me stesso“, aggiunge con un tono che sa tutto tranne che di cliché. Poi le cose le ha trovate qui a Milano, “nel mio posto”, aggiunge. Un decennio più tardi, la sua passione è diventata il lavoro della vita. Quando Apple l’ha contattato, si è chiuso un cerchio. Dice che gli sono tornati subito in mente gli anni di Londra, quando andava nell’**Apple Store** di **Covent Garden** non per acquistare qualcosa, ma per respirare l’aria che c’era lì. “Quando Apple mi ha chiamato ero talmente preso bene che non ho capito di cosa si trattasse”, ammette. E poi ha pensato a Milano, la città dove non ti fermi mai. Perché se dormi non pigli pesci. E allora gli si è stampata in testa la fotografia che ha trasformato in film. “Per questo lavoro devo fare volare le robe, mi sono detto”. E ce l’ha fatta. **A partire dal 26 luglio, ogni giorno, Apple Piazza Liberty verrà animata dalla programmazione di Today at Apple, una serie di eventi interattivi che vedranno protagonisti i creativi dello store, ma anche i talenti che hanno partecipato alla campagna di lancio. Le iscrizioni saranno possibili a partire dal 20 luglio all’indirizzo [www.apple.com/today](http://www.apple.com/today)** Chi dorme non piglia pesci, Stefano [chiusura con Stefano su Apple Store o su altri creativi] Stefano Coferai - - - XXXXXXCredo sia questo il bello di questa "comunità": l'appartenenza non è dettata dall'omologazione bensì dalla sincera ammirazione e curiosità nei confronti dell'altro (nella maggior parte dei casi). Non ci si veste tutti uguali, forse non si ascolta la stessa musica ma ci si sente bene comunque, anzi la creatività è amplificata, l'ambiente è favorevole alla libera e alla nuova espressione. Credo che tutto questo traspaia nei lavori che ho visto e nel loro stare insiemeXXXX Lo incontro nel suo nuovo studio a due passi da Lambrate. Gionata caldissima di luglio Un mago dei collage, lama. Mi ritaglierò spazi di libertà Un affascinante viaggio attraverso la sua collezione di carta, dalla carta per la frutta trovata in Marocco a Modulor, il tempo dei creativi di Kreuzberg. La sua risposta a Cosa farai domani Milano? è… “un viaggetto”, come lo definisce lui stesso [descrizione collage, “Avere tempo per andare in un posto bellissimo”, “Ci ho messo me stesso”, da piccolo stava a Treviglio, in mezzo al verde”, dove ha passato l’infanzia] # David Beckham e il senso del tempo Da quando ha appeso gli scarpini al chiodo non lo ferma più nessuno. Una chiacchierata sulla sua seconda vita con l’ex calciatore ambassador di Tudor La sua passione per gli orologi è di vecchia data. E irreversibile come il regalo che un uomo si fa col primo stipendio della sua vita. **David Beckham** di orologi ne ha avuti molti: eleganti, normali, esagerati. Qualche anno fa in un negozio vintage di Londra ne trova uno che gli sembra meraviglioso. Ha il quadrante blu, un cinturino particolarissimo. “Qualcosa che non avevo mai visto”. Un **Tudor**, il marchio di orologeria svizzera le cui origini risalgono al 1926, quando il nome «The TUDOR» viene registrato per conto di **Hans Wilsdorf**, fondatore di **Rolex**. Ed è un orologio Tudor quello che Beckham porta sul tatuatissimo polso sinistro nella suite dell’Armani Hotel dove lo incontro. Racconta che è una passione di famiglia, tanto che vanno matti per gli orologi anche i suoi quattro figli, autentici protagonisti di questa sua seconda vita di successo. Quella in cui ha riavvolto il tempo e sulle fondamenta di una bellissima carriera di calciatore ha costruito una figura di riferimento per il gentleman contemporaneo. Dal vivo l’ex di **United**, **Real** e anche **Milan** è come te lo aspetti e anche qualcosa di più: elegante in maniera impeccabile, con le scarpe così immacolate che sembrano appena uscite dalla scatola. La voce pacata, i modi delicati. Sotto il completo, il fisico pare asciuttissimo. “L’altro giorno mia figlia mi ha chiesto perché mi alleno ogni mattina”, racconta sorridendo. Il “nuovo” Beckham boxa, va in bici, fa palestra. “Lavorare sodo”, con il fisico e con la mente, è da sempre il segreto semplice e genuino del suo successo, ancora da prima che a sedici anni entrasse nel **Manchester United**. Ora che non è più un atleta, ma un uomo di business, **Becks** ha scoperto nuove passioni; qualche piacere in più: un bicchiere di vino rosso, il whisky buono - ne produce uno lui stesso, l’Haig Club. L’arte. Ma è rimasto fedele a se stesso, elegante e concreto com’era sul campo da calcio. E se gli chiedi a cosa serva un orologio, ti risponde sorridendo: “La funzione principale di un orologio per un uomo è farlo arrivare puntuale”. Ma dopo la battuta, arriva la puntualizzazione, perché un segnatempo in termini di eleganza ha la stessa importanza di un abito. Qualche settimana dopo quella scoperta a Londra, è entrato in contatto con Tudor. E dal 2017 è brand ambassador del marchio e della campagna **Born To Dare**, “nato per osare”. **Solitamente gli atleti spariscono, quando si ritirano. Tu hai ribaltato questa regola non scritta**. “Mi piace lavorare. L’etica del lavoro mi è stata instillata dai miei genitori quando ero piccolo, mio padre usciva per lavorare alle sette e tornava alle otto di sera, e anche mia mamma che faceva la parrucchiera. Appena mi sono ritirato ero pronto a entrare nel mondo del business. È importante per ogni atleta continuare a essere impegnato. Ed è importante per me, perché ho quattro figli e voglio educarli bene. Non è normale ritirarsi a 38 anni. Dopo la mia prima carriera, ora ho questa e continuo a lavorare duro e insegnare loro la giusta lezione”. **Quando hai capito di essere diventato famoso?** “Cerco di non pensare a me stesso come a una celebrità. Io volevo diventare un giocatore di calcio professionista, non famoso. Quando ero molto giovane sono uscito sul giornale locale. Era la prima volta in cui ho avuto un po’ di fama. Ma il vero momento in cui mi sono sentito celebre è piuttosto recente, risale a quando vivevo a Los Angeles ed ero a una partita dei Lakers, in fila per il bagno. Aspettavo da un po’. All’improvviso la porta si apre, esce **Jack Nicholson**, mi supera e dice «Tutto bene, David»?. E io mi sono chiesto, ma davvero? È stata la prima e forse l’unica volta in cui mi sono reso conto che la gente mi conosce”. **Cosa fai nel tempo libero?** “Non ho molto tempo libero, ma quello che ho mi piace spenderlo con la famiglia, i bambini, mia moglie. Appena ho appeso gli scarpini al chiodo ho cominciato subito la mia seconda carriera. Viaggio molto, forse ancora più di quando giocavo. È molto più facile giocare a calcio! Quando non lavoro, mi dedico alla famiglia. Accompagno e vado a prendere i bambini a scuola, cucino per loro”. **Orologi, passione nuova o antica?** “Gli orologi sono una mia vecchia passione. Con uno dei primi assegni del Manchester United ho comprato un orologio. È il tuo stile che cambia nel corso degli anni. Sono passato dall’indossare orologi normali a orologi con dei diamanti sopra. Ora sono tornato a indossare orologi eleganti e per questo mi sento fortunato della partnership con Tudor, un brand molto elegante in un modo che ti permette di usarlo di giorno e anche la sera“. **\#borntodare, nato per osare, è lo slogan di Tudor. È anche il tuo?** “Quando abbiamo parlato per la prima volta di **Born to dare**, ho sorriso, perché è la mia vita. Mi piace fare cose in modo differente, cose che gli sportivi non farebbero come andare in moto. Ma penso anche che sia un grande slogan per Tudor, un’azienda che ha una lunga storia e continua a reinventarsi. Quando hai uno slogan così devi essere autentico. Penso di essere la persona giusta per il brand”. - - - “La funzione principale di un orologio per un uomo è farlo arrivare puntuale. Anche se non sempre possiamo esserlo. Ma c’è anche l’aspetto dell’eleganza, che sia a colazione o pranzo o per un evento. Un segnatempo può avere la stessa importanza di un abito, o di una acconciatura di capelli. Ed è una parte importante della routine quotidiana”. “La partnership con Tudor è cominciata da un paio di anni. La cosa divertente è che qualche anno fa ero a Londra, dove c’è una via con dei meravigliosi negozi vintage. E in uno c’era questo orologio meraviglioso che io pensavo fosse un Rolex. Antico, con un cinturino meraviglioso e il quadrante blu. Era qualcosa che non avevo mai visto. Era un orologio Tudor. E una settimana dopo ero al telefono con loro per una partnership”. # Huawei: il P20Pro non è un telefono, è un manifesto. La recensione di GQ #### Il primo telefono con tripla fotocamera è una finestra aperta sul futuro. Che è già qui, nel bene e nel male Per raccontare il nuovo smartphone Huawei, che non solo è il migliore di sempre per l’azienda cinese, ma parte dalla pole nella corsa a telefono dell’anno 2018, conviene cominciare da quel poco che gli manca, perché si rende prima l’idea di cosa significhi averlo tra le mani. Non troverai la **ricarica wireless**, e questo è un vero peccato; c’è il riconoscimento delle impronte, ma non sotto lo schermo, come sul cugino ultradeluxe [Mate Rs](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2018/03/27/huawei-porsche-design-mate-rs-bello-e-potente-come-una-carrera-911/) realizzato insieme a Porsche Design, una tecnologia che a questo punto ci aspettiamoci serie sul prossimo flagship di **Shenzhen**. E manca il jack audio, dettaglio che scontenterà meno persone rispetto a qualche anno fa, ma che per qualcuno rimane un limite. In compenso l’audio è ottimo anche senza cuffie e non ti pentirai troppo di esserti dimenticato il tuo speaker Bluetooth a casa, anche grazie all’integrazione dello standard **Dolby Atmos**. [Le altre caratteristiche tecniche salienti le trovi qui.](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2018/03/27/huawei-p20-pro-il-primo-smartphone-con-tripla-fotocamera-caratteristiche-prezzo-e-data-duscita/) **Il primo impatto**. Da quello che manca, passiamo a quello che questo telefono sembra. Perché è innegabile la somiglianza con l’[iPhone X](https://www.gqitalia.it/tag/iphone-x/), nonostante il pulsante con lettore di impronte alla base dello schermo, che Apple ha totalmente eliminato in favore di riconoscimento con Face Id e barretta di navigazione touch – due *feature* che peraltro puoi scegliere tra le tantissime varianti software che Huawei mette a disposizione su questo telefono. A uno sguardo più attento e soprattutto dopo qualche ora di uso monta la sensazione che l’allievo abbia superato il maestro: il **[notch](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2017/11/14/odi-il-buco-sullo-schermo-di-iphone-x-puoi-sistemarlo-con-questa-app/)** è ridotto ai minimi termini – e può essere completamente eliminato, sempre via software; il telefono è leggermente più lungo rispetto a quello di Cupertino, di pochissimo più largo, ma risulta perfettamente bilanciato e comodo anche con una mano sola; la cornice alla base ruba un po’ di spazio al **display**, ma con una diagonale di 6,1 pollici non costituisce certo un compromesso quando giochi o guardi un video su **Netflix**. I colori sono bilanciati, saturi il giusto, con una bellissima temperatura colore; restituiscono splendidamente tanto le immagini dai toni drammatici quanto le illustrazioni dove sono le tinte tenui a primeggiare e allo stesso modo la resa dei dettagli è strepitosa. Non potrà piacere a tutti invece EMUI, l’interfaccia di Huawei, con le sue icone grossolane e soluzioni grafiche non sempre mirabolanti. Ma su **Android** è facile cambiare, e di temi da scaricare, pacchetti di icone e **launcher** ce ne sono per tutti i gusti – io per esempio sto usando l’intelligentissimo **[Evie](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2017/11/27/5-migliori-launcher-per-personalizzare-lo-smartphone-android/)**, che si comporta benissimo sul nuovo Huawei. La meraviglia continua anche dall’altro lato, soprattutto nella colorazione Twilight, che passa dal violetto al blu al foglia di tè a seconda delle condizioni di luce, un capolavoro di design che è costato un infinito numero di prototipi. Peccato soltanto che bastino un paio di ditate per rovinare la magia e che il **bump** della fotocamera spicchi decisamente rispetto allo spessore minimale del **device**. **La forza**. Pagine web che si aprono così velocemente che neanche ti sei accorto – una esperienza ai limiti dell’assurdo, questa, straniante. Giochi, applicazioni, riproduzione video sono fluidi e senza problemi. E poi c’è la batteria, che in piena tradizione Huawei è semplicemente fenomenale e ti accompagna tranquillamente oltre le 24 ore dove anche i migliori tra gli altri smartphone faticano ad arrivare. Restano ovviamente tutti i limiti di **Android** per quanto riguarda l’universo delle applicazioni, la loro ottimizzazione, l’incredibile quantità di immondizia che trovi sul Play Store. Ma sulle prestazioni il P20 Pro è semplicemente incredibile. **L’occhio**. Inquadri un fiore ed esce scritto “fiore”. Ti sposti di qualche metro più in alto ed entri in modalità “cielo blu”. E poi ci sono le persone, gli animali e il cibo. Se vuoi ritrarli nel dettaglio, con un clic guadagni 3x di zoom, con due addirittura ti sposti su un tele che corrisponde all’80mm di una reflex a formato pieno. Poi c’è la modalità **notte**, che ti permette di fare una lunga esposizione senza cavalletto. E tantissimo altro, che forse non scoprirai mai. La magia della fotocamera del P20 Pro, ultimo gioiello – qualcuno direbbe “definitivo” – della felice collaborazione tra Huawei e i tedeschi di **Leica**, non è facile da raccontare. Perché mette insieme il primo sistema a tripla fotocamera mai visto su uno smartphone, e quindi la componente ottica e meccanica, con una costellazione di dati e soluzioni forniti dall’intelligenza artificiale. Hardware e software insieme compongono un occhio che vede insieme a te e alle volte anche meglio di te. O addirittura al posto tuo. Il presupposto è metterti in mano non soltanto un’ottima fotocamera, ma anche tutto il **know-how** per usarla – e che non hai mai avuto il tempo di studiare – nelle ridottissime dimensioni di quella che è oramai la macchina fotografica più usata al mondo, lo smartphone. Il livello di sorpresa per l’automatismo di fare foto “giuste” che viene innescato è proporzionale a quello delle foto “sbagliate” delle varie Holga & co. durante gli anni d’oro di **Lomography**. Ti piace, non ti piace, lo odi, ma se ami fare le foto, non ti può lasciare indifferente. C’è forse ancora qualche indecisione nelle foto di piante e nei ritratti talvolta manca quasi l’umanità, ma una fotocamera che riconosce del fogliame e fa sfavillare i verdi o vede una persona e imposta da sola la modalità **bokeh** costituisce il sogno e l’incubo di chiunque abbia mai impugnato una fotocamera. La fotocamera del **P20 Pro** è, in sintesi, sublime. Sfogliando la tua galleria, dopo un po’ di tempo che usi questo smartphone, noterai tra molto splendore qualche nota fuori luogo, troppo artificiosità, filtri che piallano dettagli per salvare una foto dal rumore digitale. Per chi volesse riprendere il controllo, c’è sempre la modalità Pro, che ti permette di regolare tutto manualmente. Ma forse ti conviene fin da ora iniziare a governare la **macchina**. Quella fotografica, ovviamente. Le **conclusioni** non possono che partire da dove avevamo cominciato. Quello che manca al P20 Pro sono dettagli che poco tolgono al quadro generale. Ti colpiscono al cuore la potenza, l’intelligenza artificiale al comando in svariate funzioni del telefono e in particolare sul comparto fotografico, la batteria che ti permette di usarlo senza praticamente mai staccarti; il design bellissimo, l’ottimo schermo.“Sembra che Huawei abbia fatto un salto in avanti di una o due generazioni”, ha scritto il riferimento di settore **DxOMark** [nella recensione della fotocamera](https://www.dxomark.com/huawei-p20-pro-camera-review-innovative-technologies-outstanding-results/), ma il discorso probabilmente vale in generale. “Un nuovo rinascimento”, è lo slogan ufficiale. Ma è il P20 Pro stesso il vero **statement**. Huawei, per anni annunciata come “the next big thing”, l’azienda cinese che ha conquistato tutti il mercato dal basso per confrontarsi con i big ad armi pari. E che dopo avere scaldato il tavolo con l’ottimo Mate 10 Pro, cala l’asso. Richard Yu quest’anno ci ha preso per mano e portato nel futuro. Che è già qui: e questo telefono è una dichiarazione di potenza. E il nuovo presente da cui riparte la sfida. Sarà interessante vedere se la concorrenza riuscirà a stare al passo e come. Huawei P20 Pro è disponibile a partire da 899 euro. # Sferaebbasta: “Io sono innamorato del mio business” Il successo, la moda, le donne e... la mamma. Il ragazzo di Ciny è diventato una portentosa macchina da soldi, e lui l’affronta così “Eravamo poveri, nulla è impossibile” è il quote della gallery di oggi @sferaebbasta su Instagram, 3 foto del suo volo in jet privato da Parigi. C’è Sfera davanti al jet in posa con **Moet** in mano e zainetto nell’altra, Sfera che mangia, **Sfera** che brinda. **Sfera**, il ragazzo dei cin e di [Ciny](https://www.youtube.com/watch?v=LD3twV19uAo), Cinisello, sobborgo di palazzoni nella terra di nessuno tra Milano e Monza, oggi è il Re. Il suo ultimo disco in studio, **Rockstar**, l’ha spedito dritto nella sala del trono della musica italiana. E oltre, perché non si arresta alle Alpi la sua marcia che avanza a ritmo di trap: è stato lui il primo italiano di sempre a mettere il proprio nome nella top 100 mondiale di **Spotify**. La sua festa, si può dire con certezza, è destinata a durare ben oltre i **santè** sul jet. Lo incontro allo Spazio Maiocchi di Milano qualche ora dopo il suo atterraggio, nel frastuono dell’opening della mostra **Brothers of the World** by **Nike**, dedicata alle maglie che hanno fatto la storia del calcio, dove **Sfera** presenta quella che ha realizzato in collaborazione con l’azienda dello swoosh (ce ne sono altre due, firmate una da **Slam Jam** e l’altra da **Icardi**). Marsupio **Gucci** a tracolla, capello con spennellata di colore da anime e sguardo oscurato dall’occhiale fumè, si presenta con una stretta di mano decisa. Ripariamo in una stanzetta miracolosamente non devastata dall’urto devastante dei bassi. Oltre a **Sfera**, ci sono i ragazzi del suo team, Elisa e Paola di The Hub, che gestiscono le pr per Nike, e la mamma di Sfera (“ma lei non si intervista”, intima perentorio). Ci sediamo uno accanto all’altro sul secondo gradino di una stretta rampa di scale, che fa da palco improvvisato e scenografia insieme. Sulla parte sinistra del volto, **Gionata Boschetti**, nato il 7 dicembre 1992 a Cinisello Balsamo, in arte **Sfera Ebbasta**, ha tatuato il contorno della sagoma di un mitra; sull’altra tempia, che non vedo, so che porta due segni che parlano da soli, “**$€**”. La stessa accoppiata che compone la sua stringatissima bio su Instagram. Soldi, soldi, soldi. La maglia, base bianca e dettagli coloratissimi, al centro ha una gigantesca scritta BHMG (Billion Heaz **Money** Gang, nome del collettivo da lui formato e titolo anche di una sua canzone), subito sopra un serpente – **Serpenti a Sonagli** è la seconda traccia di Rockstar – e, **indovina!**, il simbolo del dollaro sulla manica. Questa non è la sua prima collaborazione con **Nike**, spiega **Sfera**. “Abbiamo già fatto un paio di scarpe”. Le porta ai piedi, me le mostra. Sono bianco latte AirForce One, una con i lacci blu, la sinistra rossi. “Così chi aveva le scarpe può comprarsi anche la maglietta. E fare come me, total look di Sfera Ebbasta”. E scoppia a ridere. **Che rapporto hai con la moda?** ”Mi è sempre piaciuta, ma prima del successo era difficile. La moda costa. Magari non prendevo Gucci, ma meglio H&M di un wannabe Vuitton. Quando ho potuto mi sono andato a prendere Gucci o Vuitton direttamente”. **Ispirazioni? Qualche brand, qualche designer in particolare.** “Non faccio discriminazioni. Penso che ogni brand abbia qualcosa di figo. Per fare questa maglietta l’ispirazione viene dal mio disco, il mood, i colori”. *E poi Gionata si ferma per una pausa di pochi attimi, che fa il vuoto. Dopo lo farà di nuovo. Indugia in improvvisi carismatici silenzi il ragazzo di Ciny, ricordando un po’ quello della via Gluck.* “O meglio, com’è **nella mia testa** il mio disco. La copertina l’abbiamo fatta con questi colori, le scarpe con questi colori”. **Oggi si può diventare ricco grazie alla musica?** “Fare delle belle canzoni ti permette di accrescere il tuo personaggio e di fare in modo che i brand vogliano te. Non è solo la musica, ma la musica ti permette di guadagnare”. **Ti senti un rapper?** “Mi sento un artista”. **Sei stato il primo italiano nella top 100 Spotify. Un botto che ti ha cambiato la vita?** “Pensavo che la mia vita fosse già cambiata, questo disco me l’ha fatta cambiare ulteriormente. Quando sei nella top della musica italiana, qualcosa per forza cambia”. **Sei diventato ricco?** “Ti posso dire che quest’anno ho pagato tante tasse”. **E tutti questi soldi come te li spendi?** Ci pensa un attimo. “Non spendo tutto. Un po’ li ho investiti, un po’ li risparmio…” **Li risparmi tu?** “No, ci pensa mia mamma a risparmiarli”. E la indica. Poi aggiunge, con orgoglio. “Ho regalato una casa a mia mamma”. **Spese pazze?** Sorride, tentenna. I ragazzi del suo team si scaldano. “Oggi ho preso un jet privato da Parigi. È la prima volta. Non penso che sarà l’ultima pazzia che farò”. **Macchine?** “Mi piacciono le macchine, ma non ne ho una. Io vado in giro con Uber”. **Quindi i soldi li gestisce tua mamma.** “No, li gestisco io. Lei mi aiuta a risparmiare. Ho le mani bucate, non riesco a darmi freno. Non riesco a darmi limiti”. **Quindi Uber tutto il giorno.** Sì, anche per prendere aria quando fa caldo. **Altro?** “Cosa ti devo dire”. Si scopre il polso. “Questo Rolex di diamanti. Lo vuoi, te lo regalo? Uno l’ho regalato anche a mia mamma”. A questo punto, la mamma si avvicina, mi mostrano gli orologi. Anche lei indossa le Nike **Sfera Ebbasta**. **E prima del successo la vita com’era?** “Fino a due anni fa ero povero”. **Vivevi ancora a Cinisello?** “Sì. Erano due anni fa?”, *chiede a sua madre*. “Scusami, ho una memoria di merda. Ho cambiato tante case. Ho vissuto in Brianza, ho vissuto a Bergamo. A Milano ho cambiato tre, quattro case. Ero Corsico recentemente, prima di trasferirmi. Ora sto in zona Baggio, Settimo, quelle zone là”. **Non hai mai pensato di andare a vivere in centro?** “Non mi piacerebbe il vicinato”. **Cosa pensi della casa di Fedez. Gliela affitteresti mai?** “La mia a lui?“ **L’ha messa in affitto, ne hanno parlato tutti** “No, troppo piccola“, ride. **Il successo ha cambiato la tua musica?** “La mia situazione precedente mi ha aiutato a scrivere quei tipi di testi. La mia vita era già cambiata prima dell’ultimo disco e quella situazione è stata comunque di ispirazione. Dipende da te e da quanto tieni i piedi per terra”. **Ora sei benestante, non hai paura di avere meno cose da dire?** “Quello dipende dalla persona, non da quanti soldi hai. Ci sono persone che hanno soldi e non hanno il cervello, persone che non hanno soldi e hanno il cervello, persone che non hanno soldi e non hanno il cervello”. **E gli amici?** “Tutto il team che lavora con me sono amici miei”. **Quanti siete?** “Sei, sette persone che campano di questo”. **E con le ragazze?** “In questo momento non mi immagino proprio fidanzato“. **Ferragni-Fedez, Kim&Kanye, e anche Jay-Z e Beyonce: ti immagini di essere in una coppia così?** “Se tu ti innamori di una persona non penso che stai lì a contare quale sia la combinazione giusta tra il tuo conto e il suo conto, tra i tuoi follower e i suoi follower”. **E tra il business e una persona di cui ti innamori, chi sceglieresti?** “Potrei anche dirti che non lo so. Se ti innamori scegli la persona. Se non ti innamori sceglierei per sempre il business. Fortunatamente sono bello tranquillo e per i fatti miei”. E poi conclude, con una frase che sembra uno slogan: “Io sono innamorato del mio business, adesso”. # Qui Brera, il Design District più importante del pianeta È stata la zona degli artisti e degli intellettuali, del Bar Jamaica e poi dei radical chic. Ancora nel dopoguerra ospitava la *contrada dei tett*, la zona a luci rosse di Milano. Oggi, trendy ed elegante, ritagliata tra le mura antiche del Castello Sforzesco e le torri di vetro di Porta Nuova, Brera – quartiere che prende il nome dall’omonima via e che significa “campo incolto” – è il primo e più importante **Design District** del pianeta, con oltre 100 showroom, gallerie d’arte e spazi per eventi. Affacciato su un cortile interno di un caseggiato storico di via Palermo, il **Brera Apartment** è uno spazio di circa cento metri quadri arredato da **Bulthaup**, **Davide Groppi**, **Saba**, **Agape**​ e altri nomi dell’olimpo del design. **Paolo Casati**, **creative director** del **Brera Design District**, in jeans e maglione con la zip, mi accompagna per un rapido giro delle sale, che corrono lungo il corridoio laterale dove una parete verde di plexiglass, montata su legno, distorce il riflesso con un effetto assolutamente unico (la realizzazione è di Studiopepe). Fuori sui terrazzi in fiore scende la pioggia che affligge questa primavera milanese; Casati prepara un tè e ci accomodiamo al lungo tavolo **Vitra** che taglia longitudinalmente il salone su cui si apre l’appartamento. Sul parquet, un tappeto **cc-tapis**. “Questa casa è un manifesto”, spiega Casati. Il **[Brera Design District](http://www.breradesigndistrict.it/?lang=en)** oggi si presenta come un brand sfaccettato che ha almeno 4 identità progettuali differenti e coordinate: oltre all’appartamento, i Design Days, l’evento autunnale dedicato alla cultura del progetto, un servizio di supporto per eventi sul territorio – **Location** – e poi ovviamente la piattaforma a servizio del **Fuorisalone**, che resta l’evento principale durante l’anno, oltre a essere quello che magnetizza la maggior parte delle risorse – e ovviamente, restituisce le maggiori possibilità di business. Dietro tutto questo c’è **Studiolabo**, l’agenzia di comunicazione che Casati ha fondato insieme a **Cristian Confalonieri** e con cui porta anche avanti lo storico progetto di Fuorisalone.it. **Come nasce il BDD.** Il Brera Design District esordisce nel 2010. “Non lo inventiamo noi”, ricorda Casati, “ma una persona che si chiama Marco Torrani, presidente di Via Solferino”. L’intuizione parte dai *duc*, i [distretti urbani del commercio](https://fareimpresa.comune.milano.it/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=415&Itemid=352) all’epoca appena istituiti dal Comune di Milano. “Noi gli abbiamo dato un bel vestito, non ci siamo inventati qualcosa che non ci fosse già”: Brera è un **campo incolto** per etimologia, ma certo non lo era già allora per il design; c’erano molti show-room, una settantina, più qualche spazio per eventi già conosciuto – come la **Pelota** di Via Palermo, a pochi metri da dove ci troviamo adesso. E poco altro. A distanza di nove edizioni, il Fuorisalone di Brera è quello che assomma più visitatori. E gli showroom, intanto, sono diventati cento. Un numero destinato a lievitare, spiega il direttore creativo: “Oggi se uno vuole aprire uno show-room di design lo fa qui, perché non soltanto i milanesi, ma il pubblico internazionale riconosce in Brera questa vocazione”. Questo distretto non è diventato un punto di riferimento per il design per caso, ma come risultato di un’operazione a tavolino. Sono serviti un lungo studio, svariate analisi e tanto, tantissimo lavoro. “Il nostro modello è stato copiare quello che vedevamo nel mondo”, ricorda Casati, “come il **Meatpacking District** o **Soho** a New York, operazioni costruite a tavolino da parte di immobiliaristi. Noi ci siamo mossi come sappiamo fare, con una operazione di comunicazione e il progetto è cresciuto grazie alla nostra capacità di fare tutto in casa: grafica, account, comunicazione, oltre a una rete di contatti estesa”. E aggiunge, con orgoglio: “siamo artigiani”. Dietro il Brera Design District c’è l’esperienza di anni di design week in altre zone di Milano, da Tortona a Porta Romana, da Via Mecenate a Bovisa. E ancora prima Fuorisalone.it, la piattaforma che mappa tutte le attività che accadono in città in occasione del Salone del Mobile, la cui nascita – su digitale, erano i primi anni 2000, all’epoca svettava come un monolite nel deserto – risale all’epoca dell’università. “Ci ho anche fatto la tesi”, sottolinea l’ex studente del Politecnico classe 1977, e sorridendo racconta come, nelle feste e in altre occasioni sociali, sia passato da sentirsi chiamare “quello di fuorisalone.it” o semplicemente “fuorisalone” a essere “guarda, c’è brera”, come accade oggi. “Milano è un buco e tutti ti conoscono per quello che fai”, mi ripeterà più volte nel corso della nostra chiacchierata. **Fuorisalone 2018.** Questa è [la nona edizione della Brera Design Week](http://2018.breradesignweek.it/?utm_source=bdd) e il tema della settimana sarà l’empatia, ovvero “la capacità di immedesimarsi e di comprendere i bisogni prima di creare soluzioni”, un argomento di importanza basilare per ogni designer, ma che costituisce anche un ottimo spunto per affrontare l’attualissimo tema dell’intelligenza artificiale. I robot cambieranno i processi di progettazione, oltre a quelli di produzione, ma come lo faranno? Il **BDD** per questa edizione assegna anche un premio (a Constance Gennari, per **The Socialite Family**) e ha nominato tre ambassador (Cristina Celestino, Elena Salmistraro e Daniele Lago) , “talenti che credono nell’aspetto emozionale del design e nell’empatia che si crea tra gli oggetti, i luoghi e le persone”, tutti presenti nel distretto con un progetto personale. L’anno scorso durante il Fuorisalone nei confini del **BDD** 180 eventi hanno coinvolto 300 aziende e 250mila persone, con più di 130mila pageviews sul sito, 15mila guide e 30mila mappe distribuite in 6 giorni. Quando tutto è cominciato, nel 2010, gli eventi erano 42; già l’anno successivo sfioravano il centinaio. “Brera è il Design District più importante al mondo, perché non esiste un’altra area sul pianeta con quella densità di showroom legati al design”, ribadisce Paolo Casati. E durante il Fuorisalone non esiste un’altra area della città che abbia un numero così grande di espositori ed eventi. **Milano, città di distretti (nel bene e nel male)**. La Milano del Fuorisalone non è solo **Brera**, ovviamente. **Zona Tortona** è stata la prima a renderlo “popolare”, il Fuorisalone degli open bar, anche se in definitiva quello dietro Porta Genova è soprattutto un quartiere legato alla moda. Tanti poli e distretti sono nati negli anni, alcuni si sono disgregati, altri hanno cambiato “residenza” (Ventura è diventato **Ventura-Centrale**). Per condividere bisogni, problemi e obbiettivi è nato da qualche anno il tavolo interzone degli operatori del design di Milano. “Un’esperienza molto positiva”, commenta Casati, “perché ha sbloccato i rapporti con Salone, ma anche la possibilità di sedersi al tavolo con il direttore di una rivista di design e mettere in piedi un progetto insieme”. Il tavolo ha fatto crescere i rapporti e le sinergie tra le aree del design di Milano (“con Ventura ci sentiamo tutti i giorni”) evidenziando però l’unicità di Brera. “Nel tempo, mentre gli altri cambiavano identità, nome o quartiere, noi siamo rimasti gli unici fedeli a noi stessi”. “Quelle con cui non andiamo d’accordo sono le tante realtà che abusano del termine “district” quando mancano le condizioni”. Nel caos felice del Fuorisalone, che ribalta la città con l’impeto di migliaia di eventi privi di una regia unica, esistono anche le note stonate. Perché nella città della moda fa trendy vendersi come distretto di design. Con la diffusione di quella che tra milanesi si definisce cordialmente **fuffa**. Perché non ci si improvvisa qualcosa che non si è, ma non solo. I design district dalla vita breve quanto una farfalla non fanno bene alla città. “Così perdi un’opportunità”, commenta Casati, che osserva come basterebbe un’analisi dell’area per scoprire quali sono le risorse che puoi promuovere tutto l’anno: food, intrattenimento o altro, esattamente come è stato fatto per Brera e il design. Inoltre, si aumenta l’entropia già galoppante del Fuorisalone, cosicché chi arriva da fuori, “l’olandese o il giapponese o il cinese”, e forse anche il milanese stesso, si disorienta, non capisce più i valori, i pesi e le direzioni. Vanificando gli sforzi di chi lavora seriamente tutto l’anno, da anni, per rendere il Fuorisalone l’occasione più importante che ha la città di Milano per mostrarsi al mondo. **Il digitale, il metodo e la reputazione.** “Eravamo in due, ora siamo in dodici”. Casati e Confalonieri hanno fatto parecchia strada dagli esordi di fuorisalone.it. Senza quella esperienza fondamentale, con ogni probabilità, oggi il **Brera Design District** non esisterebbe neanche. E non soltanto perché su quel sito si condensò la rete di contatti necessaria per l’operazione District. “Il nostro scarto è stato il digitale“, dichiara orgogliosamente Casati. Commentando con un sorriso, “io lo dico sempre, non ci fosse internet oggi non saprei che fare“. Ovviamente, il digitale da solo non basta, e qui si vede la lezione di chi ha studiato come progettare: sono serviti **il metodo** – “come diceva **Ernesto Rogers**, dal cucchiaio alla città l’approccio è lo stesso”. E la **reputazione**, “perché in una città piccola come Milano, in un contesto ancora più piccolo come quello del design, se fai un errore sei segnato. E noi, per fortuna, non ne abbiamo fatti”. E poi ancora tanta dedizione, tanto lavoro, “questa per noi è una passione vera”, sottolinea Casati, che per quattro anni del suo percorso universitario al Politecnico ha disegnato prodotto, per poi spostarsi alla comunicazione. “Fare le notti a impaginare una guida… lo si fa sempre con piacere”, sorride ancora, e mi spiega come proprio stanotte, a pochi giorni dalla **Design Week,** gli toccherà fare le ore piccole. E mentre sorride sornione, come a schermare con timidezza la passione che lo agita e muove, dai suoi occhi puoi capire che, sotto sotto, non vede l’ora di mettersi al lavoro, per quanto sfiancante possa essere. “Siamo partiti da una mappa, siamo passati a un giornale, oggi abbiamo una guida di 200 pagine formato A5 con contenuti editoriali e doppia lingua”, ma non ci si può fermare. Perché se lo scarto è stato il digitale, oggi il terreno da conquistare sono i social media. Che cambiano a una velocità impressionante (“pensa a Twitter, ho passato anni a lavorarci e ora non serve più a niente”) e nel mondo del design stanno ancora trovando una loro precisa identità, distanti anni luce come sono dai numeri stratosferici dei “cugini” della moda. “Ma alle aziende piacciono molto, soprattutto piace Instagram”, spiega Casati, dipingendo uno scenario di pochi numeri, quasi nessun influencer, tantissima ricerca della qualità, in cui un profilo con soltanto 3000 follower può assurgere a punto di riferimento. Proprio in occasione della Design Week 2018 di Milano, **Instagram** ha presentato – in collaborazione con **[Dezeen](https://www.dezeen.com/)**, stella polare nell’editoria di settore – **@design**, un profilo/piattaforma dedicato alla cultura del design che vuole cambiare le regole del gioco con un progetto curatissimo, dove convogliare energie e nuovi talenti, si spera lontano dall’economia delle piogge di cuori che regolano regioni più o meno limitrofe del social di Zuckerberg. **Il presente di Brera, qui a Brera, è già il suo futuro**. Casati ne è piuttosto convinto: quello che poteva essere fatto qui, sul territorio, è stato fatto. E ora le direzioni da prendere puntano altrove. A cominciare dall’internazionnalizzazione del brand **BDD**, “e l’idea” – spiega il **creative director** – “che domani Brera possa diventare un luogo, un negozio, fisico o online, o anche una replica di questo appartamento dove tu vendi l’Italian way, quella che è la nostra visione”. E appunto, si ritorna alla casa in cui ci troviamo, che definisce “la dimensione attraverso cui capitalizziamo il percorso”. Affittando la casa del **Brera Design District** ad aziende per rientrare nei costi, ma anche usandolo come hub e luogo d’incontro per designer, studiosi, appassionati di settore. E il **tavolo** di Vitra progetto da Jean Prouvé a cui siamo seduti, “che come tutto quello che vedi è dato”, è un luogo nel luogo, un punto d’attracco che ha un potere enorme. Perché, sempre grazie al digitale e alla possibilità di connettersi dall’altro capo del mondo in tempo reale, si possono invitare virtualmente nell’appartamento centinaia, migliaia di persone. Continuando a lavorare con passione e serietà sul design e capitalizzando un percorso che sta passando il giro di boa dei dieci anni. “Non ci piace spremere le cose, preferiamo crescere passo dopo passo”, è il mantra di **Paolo Casati**, la sua filosofia di lavoro, la formula del successo delle sue operazioni. “Siamo artigiani”, conclude il creative director. ”È anche il nostro limite”. E con il Salone alle porte e tante cose da chiudere per tempo, è già il momento di tornare a lavorare. Il futuro, da queste parti, si conquista così. # Beoplay P6, il nuovo speaker Bang & Olufsen raccontato dalla designer Cecile Manz Realizzato in alluminio anodizzato sabbiato con il tipico disegno a fori e dotato di uno *strap* in pelle, **Beoplay P6** è l’ultimo speaker wireless di Bang & Olufsen. Si avvale della tecnologia **True360** che rende ricco e profondo l’audio delle casse del produttore danese ed è dotato del tasto **OneTouch** che permette una interazione smart con la cassa durante la riproduzione musicale, oltre ad attivare Siri o Assistente Google sul tuo telefono, accettare chiamate e scorrere tra gli svariati preset della app Beoplay; ha un’autonomia di 16 ore se lo vuoi portare in giro, ma starà benissimo in qualsiasi salotto, con il suo design elegantissimo curato dalla designer Cecile Manz, che per Bang & Olufsen ha già messo la firma su tanti speaker portatili, tra cui il compattissimo Beoplay A1 e il meraviglioso Beolit 17. Una particolare attenzione nel **Beoplay P6** è stata data ai bottoni, ispirati al Beomaster 6000 di Bang & Olufsen, il sound system iconico progettato da Jacob Jensen. “Con questo speaker volevamo sfidare al massimo livello le possibilità di impiego dell’alluminio, vedere quanto lontano potessimo andare”, spiega **Cecile Manz**. “La parte complessa è mantenere contemporaneamente una qualità alta in tutti i dettagli”. **Sei soddisfatta?** Sì, ho bisogno di essere soddisfatta con quello che faccio. **Avevi un certo tipo di persona in mente quando hai progettato questo speaker?** No, a parte il fatto che io voglia relazionarmi come persona a quello che progetto. Cosa c’è di speciale nel lavorare con Bang & Olufsen? Quando sono stata invitata negli stabilimenti ero molto felice. Mi piacciono molto le visite nelle fabbriche in cui entri davvero a contatto con lo spirito dell’azienda, le persone che ci hanno lavorato per tanti anni, vedere i macchinari, comprendere il brand. Ho chiarito fin dall’inizio che avrei avuto bisogno di libertà per dare il mio contributo allo sviluppo del design. Ho fatto tanta ricerca, ho fatto attenzione a cosa mi dicevano gli ingegneri. Penso che sia importante: se ascolti, impari. E può capitarti anche di porre molte domande stupide e imparare veramente delle cose! **Che differenza c’è tra questi speaker e quelli che hai progettato in passato?** Penso che tutti gli speaker B&O Play siano in qualche modo connessi. Tutti condividono un’impronta estetica comune e sono fatti con gli stessi materiali; al tempo stesso, però, sono tutti differenti tra loro, perché hanno impieghi differenti: il P2 sta anche in tasca, perché ha un uso differente rispetto all’M5 o al Beolit 17, nei quali non è importante la grandezza, ma la profondità e la ricchezza del suono. **Negli speaker bluetooth c’è un elemento invisibile importantissimo, con cui relazionarsi durante la progettazione: il suono**. Il suono è il punto di partenza, deve esserlo per forza. Io non sono un ingegnere del suono ma ho la necessità di rispettare quello che gli ingegneri del suono mi dicono, riguardo a cosa sia fattibile e cosa no. Io cerco sempre di portarmi un po’ oltre, sfidare i limiti di volume, grandezza, forma, ma arrivo sempre a un punto in cui devo preservare la qualità del suono. Perché un bello speaker non è bello, se il suono non è buono. **E l’implementazione della tecnologia è un ostacolo?** Non vedo le restrizioni come dei nemici, possono aiutarti anzi molto durante la lavorazione, anche quando stai facendo delle scelte.# Ho dissezionato una rana sul nuovo iPad #### Ma nessun animale è stato ferito per la realizzazione di questo articolo È uscito un nuovo iPad. È bello e potente, anche se non come l’iPad Pro. Ha un ottimo schermo, anche se non è quello dell’iPad Pro; e rispetto al Pro 10,5, con cui condivide dimensioni e ingombri, ha le cornici più grosse e non ultrasottili. È l’iPad più economico di sempre, il modello base costa 359 euro. E con il Pro ha sì una cosa in comune: per la prima volta, anche la linea base dell’iPad è compatibile con la Apple Pencil – quindi, anche con quei pennini sviluppati da terze parti, come quella di Logitech. Allargando così il bacino di utenza di una tecnologia che, lanciata un paio di anni fa, era rimasta a esclusivo appannaggio di una utenza elite che aveva acquistato iPad Pro; un vero peccato, perché le applicazioni che fanno uso del pennino sono tante e non soltanto quelle che permettono di disegnare. E ne vedremo sempre di più. Anche perché negli Stati Uniti, dove il tablet a scuola fa presenza fissa, il nuovo iPad è stato lanciato proprio con in mente loro, gli studenti. In Italia le cose sono un po’ diverse e aspettando che le nuove tecnologie non siano più studiate come materia, ma la materia (fisica e di concetto) su cui studiare le altre, il nuovo iPad e la Pencil verranno comodi a molti. Soprattutto grazie alla qualità delle app a disposizione: quando si sfoglia l’app store dell’iPad diventa siderale la distanza dalla concorrenza che già si avverte sull’iPhone. Scrivere appunti a mano libera (e firmare pdf). Nella top 5 delle applicazioni produttività la situazione è piuttosto chiara: le app preferite sono quelle per prendere appunti direttamente sull’iPad. Lo puoi fare con i normali stilo in circolazione (quelli con la punta di gomma, per intenderci), ma la precisione di Apple Pencil restituisce risultati che spingeranno molti a lasciare impolverare i loro bloc e quadernoni. Le app di riferimento sono due, con un terzo incomodo che offre soluzioni decisamente interessanti. Partiamo da quest’ultimo, MyScript Nebo, sicuramente la app più “smart” del trio, con varie possibilità di usare la scrittura in maniera avanzata e non semplicemente come se stessi replicando mimeticamente la scrittura di su carta. Puoi cancellare senza lo strumento gomma, ma semplicemente con un tratto di penna, staccare parole accavallate e trasformare quello che hai messo giù in corsivo in scrittura “a macchina” con un semplice clic. **GoodNotes 4** invece è la app che riesce a replicare meglio l’esperienza della carta, con alcune opzioni prezione come il pannellino di ingrandimento, per una scrittura minuziosa, o l’icona che “spegne” la penna quando vuoi solo sfogliare un quaderno. E ci sono tantissimi tipi di carta tra cui scegliere, anche quella pentagrammata. Sarebbe utile avere a disposizione due colori diversi per la biro direttamente nella barra strumenti e che le impostazioni si sincronizzassero via iCloud tra i vari dispositivi. Se vuoi farti convincere ad acquistarla, prova a dare un’occhiata all’aggiornatissimo profilo Instagram. E poi c’è Notability, sicuramente la più completa, e anche se l’interfaccia è meno raffinata rispetto alla concorrenza il vantaggio di potere integrare note audio è sicuramente grande, del resto la distribuzione delle note in diverse cartelle o l’utilizzo come alternativa alla app Note di Apple per fare elenchi o liste direttamente dalla tastiera, da alternare a elementi scritti a mano. Sia Notability, sia GoodNotes 4, oltre a essere compatibili con iPhone, hanno una app anche per MacOs, che ovviamente sincronizza tutti i contenuti, in modo da potere consultare note e appunti anche dal portatile o dal desktop. Anche la suite produttiva costituita da **Pages**, **Numbers** e **Keynote** si è aggiornata, con la possibilità di dare spazio alla creatività con i nuovi strumenti per Apple Pencil, e la nuova funzione per le *smart annotations*, pensata sempre per chi vuole intervenire a mano. **Paper** invece è un’ottima soluzione per tutti quelli che hanno bisogno di una app per realizzare degli sketch grafici. La resa dei diversi strumenti di disegno è veramente incredibile. Per sbloccare tutte le funzioni tuttavia occorre un abbonamento, annuale (9,99 euro) o semestrale (6,49). **Froggipedia** è la risposta in formato tablet alla scena di ET in cui le rane liberate schizzano fuori dalla classe di Elliot come tanti piccoli alieni che cercano di tornare al loro pianeta. Senza rinunciare allo studio dell’anatomia della rana, che in questo caso è soltanto digitale e in realtà aumentata. Ci sono tre sezioni. Una per conoscere il ciclo di vita della rana, a partire dall’uovo; e una seconda in realtà aumentata che ti permette di studiare l’anatomia dell’anfibio dopo averlo virtualmente posizionato sulla tua scrivania, olà. Con la Apple Pencil qui in versione bisturi la puoi anche sezionare. Per noi è una esperienza surreale, per i nostri figli sarà probabilmente la normalità. Gli anfibi ringraziano. La realtà aumentata cambia la nostra fruizione dell’arte, perché ogni luogo può diventare un museo grazie alle app. Abbiamo già parlato di 4th Wall, progetto di un’artista contemporanea che ti fa entrare nel suo studio in qualsiasi angolo del mondo tu sia; per restare in un ambito più classico, **Boulevard AR** è l’applicazione che ti mette di fronte le opere della collezione Tudor della National Portrait Gallery di Londra, con un tour in nove vignette guidato dal curatore della collezione. **Playgrounds**. È la app che ti insegna come si fanno le app. E magari un giorno a farne anche tu, usando Swift, il linguaggio di programmazione per iOS. Con una gamification intelligente e ben fatta, che rende tutto godibile da imparare, passo dopo passo. E adatto a una utenza come i giochi Ravensburger, 9-99 anni, anno di più, anno di meno. Qui non c’è realtà aumentata o Apple Pencil, ma semplicemente una solidissima applicazione per imparare come sono fatte le applicazioni con cui spendiamo così tante ore tutti i giorni. # Fujifilm X H1: le caratteristiche e la prova di GQ Dopo avere conquistato il cuore degli amanti della fotografia con le sue fotocamere mirrorless, che uniscono design retrò, ottimi comandi manuali, buoni obbiettivi e una resa di alto livello grazie anche a un sensore sviluppato in casa, Fujifilm l’anno scorso ha lanciato una nuova sfida aggredendo il segmento professionale con un intero sistema medio formato digitale e la fotocamera [GFX 50s](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/09/21/gfx-50s-la-prima-mirrorless-digitale-medio-formato-di-fujifilm/). Sempre con l’intenzione di puntare verso l’alto, l’azienda giapponese lancia la nuova ammiraglia della serie X, scalzando dal trono il modello Pro, che dopo avere battezzato la gamma delle mirrorless Fujifilm nel 2012 era stato rivisto e potenziato nel 2016. **La nuova X-H1 è la fotocamera più performante della gamma X**. Viene incontro ai professionisti della foto e del video con un corpo robusto, resistente a polvere, acqua e freddo (fino a -10 gradi), che può essere facilmente impugnato verticalmente con l’apposito grip, e un sistema di stabilizzazione dell’immagine capace di coprire fino a 5 stop, più una simulazione di pellicola, “Eterna”, pensata appositamente per il video. Il sensore **CMOS** di 24 milioni di pixel utilizza il motore di elaborazione delle immagini **X-Processor Pro**, già visto sui modelli **X-Pro2** e **X-T2** di Fujifilm; il mirino elettronico, snodo cruciale per le mirrorless, promette la migliore fluidità possibile; tra gli accessori, anche un oculare grandangolare. **X-H1 sarà disponibile da marzo 2018 al prezzo indicativo di 1.939,99 euro iva compresa solo corpo e al prezzo indicativo di 2.239,99 euro iva compresa 2.239,99 in kit con il Vertical Power Buster**. Ma come si comporta sul campo? Questa sera le impressioni della nostra prova sul campo a Lisbona, durante l’evento europeo di presentazione della fotocamera in cui Fujifilm crede tantissimo. In mano. È la più “grossa” della serie X. Soprattutto con il grip. Ma resta comunque una via di mezzo tra una piccola mirrorless e i modelli ingombranti reflex o medio formato. Con un pancake è facilmente trasportabile. Il grip sicuramente prende spazio in borsa ma bilancia perfettamente la fotocamera, e questo aspetto, aggiunto ai vari boost che conferisce alla X-H1 in fase di scatto, lo rendono un accessorio quasi imprescindibile. **Video**. È sicuramente l’aspetto che è stato migliorato più a fondo rispetto agli altri modelli X, che era nata come una serie soprattutto dedicata al mondo della fotografia. Certo, le opzioni sono quasi troppe per chi non è un invasato di riprese e il peso si fa sentire, il target è senza dubbio più quello dei professionisti, pronti a mettere in campo una serie di accessori (gimball, cavalletti e così via) piuttosto che l’utente che voglia fare un video “casual” - un iPhone X continuerà ad andare benissimo – anche se l’ottima stabilizzazione dà i suoi risultati. Allo stesso modo può essere la fotocamera “definitiva” da usare su un drone professionale, ma il discorso è sempre quello: se pensi di fare video incredibili out-of-the-box puoi dimenticartelo. **Ritratto, movimento, performance**. Cosa possiamo chiedere ancora a una macchina fotografica quando passiamo il tempo a scattar con i cellulari e a mostrare le foto agli amici al grido di “guarda, sembra fatta con una reflex”? Considerato soprattutto che le serate proiezione diapositive scattate in medio formato dei nostri genitori sono diventati dei post su Instagram. Una macchina fotografica sicuramente deve essere veloce, avere un vasto parco ottiche e riuscire laddove i cellulari ancora non arrivano - zoomate superspinte, grandangolo, bokeh naturale e non ricreato da qualche intelligenza, foto con scarsa luce, uso di flash esterni e condizioni meteo difficili. Ma forse, probabilmente, quello che chiediamo alla nostra prossima macchina fotografica è che sia migliore della precedente. Perché, professionisti a parte, chi vuole continuare a fotografare con le fotocamere lo fa perché le ama. La nuova X-H1 ha tantissime opzioni ma non porta rivoluzioni particolari nelle meccaniche del fotografare come fece la prima X-Pro - che aveva comandi manuali sulle ghiere al tempo rarissimi sulle digitali, una doppia modalità per il mirino e un ingombro contenuto comparato all’ottima resa fotografica. Questa nuova X-1H è semplicemente lo stato dell’arte per una fotocamera della Serie X. Senza compromessi, quasi fin troppo senza: navigare il menù è un’impresa da fanatico dei manuali delle istruzioni. Ma c’è tutto quello che cerchi o che vuoi, o quasi. Quindi se hai già le ottiche e vuoi aggiornare il corpo, o hai sempre aspettato per passare a questo sistema, questo è il momento buono (anche perché molti venderanno a un prezzo sensato le loro Pro2 e T2 per fare upgrade). Ma attenzione, la nuova ammiraglia Fujifilm è un bolide e va forte nelle mani giuste. **Complessa, versatile, tutta da imparare, la X-H1 è per chi mastica di fotografia o vuole mettersi seriamente sotto con tempi e diaframmi per imparare**. Se cerchi qualcosa da usare in automatico che faccia magie sul tuo terribile profilo Instagram, o ti faccia sentire un po’ fashion blogger, ti converrà guardare da un’altra parte. Nella prova di Lisbona, abbiamo usato la nuova lente FUJINON MKX18-55mmT2.9 e l’ottimo, intramontabile obbiettivo fisso normale Fujifilm XF 35mm f/1.4 R. # Hovr, la nuova tecnologia running delle scarpe Under Armour La suola intermedia, ovvero la base della scarpa, ha il compito di assorbire e rilasciare energia durante la corsa, ammortizzando al tempo stesso gli urti quando il piede poggia sul terreno. È il terreno di battaglia dei giganti del footwear mondiale nel mondo del running, e ognuno presenta una sua tecnologia proprietaria: adidas ha Boost, Nike lancia React in questi giorni e Under Armour risponde con HOVR, un “piattaforma” disponibile – per ora – in due linee di scarpe running: Sonic e Phantom. **Cos’è HVOR**. Ammortizzare al meglio la corsa, garantire un perfetto ritorno di energia. Questo il compito dell’intersuola ideale: per realizzarlo, HVOR utilizza una schiuma brevettata insieme a Dow Chemical, il secondo più grande produttore chimico del mondo. Un elemento chiave del sistema di ammortizzazione HVOR di UA è l’”Energy Web”, una rete mesh che racchiude il nucleo di ammortizzazione, garantendo così notevole reattività e ritorno di energia. Questa perfetta combinazione aumenta il comfort per i runner e ne migliora le prestazioni, riducendo al tempo stesso la fatica . Con il sistema HOVR, infatti, la scarpa assorbe parte dell’impatto che il corpo dell’atleta percepirebbe normalmente, aumentando il comfort e mantenendo le gambe riposate. “Lo sviluppo di HOVR è stato ispirato dall’aver compreso che, per un runner, ogni passo ha un impatto pari a 2-4 volte il suo peso corporeo, e lo àncora al terreno” – dice Dave Dombrow, Chef Design Officer di Under Armour. “La suola intermedia di HOVR restituisce grande energia e rende ogni passo leggero e senza sforzo”. Il nucleo di ammonizzazione che garantisce questi risultati è racchiuso in una rete a maglia, l’Energy Web. La scarpa può così assorbire l’impatto, riducendo al minimo la fatica. Le HOVR Sonic sono state create per i runner che puntano alla distanza: hanno un peso di circa 272 grammi e un drop di 8mm. Le HOVR Phantom hanno invece una tomaia in maglia, un calzino che racchiude il piede e garantisce comfort e adattabilità intorno alla caviglia. # Firestone: cosa c’entra la musica con gli pneumatici? Un brand storico scommette su festival e artisti emergenti per il suo rilancio. L’operazione è riuscita, grazie a un approccio autentico e attento all’heritage del marchio Il **Primavera Sound** di Barcellona è uno dei festival musicali più belli del mondo. Forse il più importante. E quest’anno Firestone ha scelto i giorni del festival e la metropoli catalana per presentare il suo ultimo pneumatico, il **Roadhawk**. Una scelta azzardata? No, anzi. Un matrimonio riuscito e consolidato, quello tra il brand del gruppo Bridgestone e i festival musicali. “Funziona”, spiega Thierry Jupsin, Director Brands Marketing di Bridgestone. La musica è stata una scelta precisa per il rilancio del brand Firestone nel 2014, spiega. A tre anni di distanza, i risultati si vedono. Il brand ha una storia antica e la musica da sempre è nel suo dna: la Firestone Tires & Rubber è stata fondata nel 1900 e poi acquisita nel 1988 da Bridgestone. Nel 1928, Harvey Firestone lanciò **The Voice of Firestone**, un programma radiofonico, che presto arrivò anche sulla televisione americana, per la ricerca di nuovi talenti musicali. Nel 2014, quando è stato organizzato il Firestone Music Tour, è rimasta quella filosofia: “Non abbiamo semplicemente sponsorizzato un concerto, o un festival, o dei festival”, spiega Jupsin, “Noi cerchiamo il talento. Le star del futuro”. C’è il sole di giugno, qui a Barcellona, quando una carovana di auto attraversa la città per poi spostarsi a nord, tra le montagne dell’entroterra catalano, tra cittadine industriali di fine Ottocento, tornanti che fanno la serpentina tra montagne verdeggianti e un panorama di coste rocciose rossastre e levigate dal tempo che ricorda certi scorci americani. In un circuito fuori città proviamo le nuove **Roadhawk**: gomme sviluppate nel centro Firestone di Roma che garantiscono risparmio e durata grazie all’ottimizzazione dell’efficienza di rotolamento per il contenimento di consumi e una attenzione speciale alla performance in condizioni difficili, che si tratti di una frenata o di curve sul bagnato. “Io mi diverto quando ho la padronanza del mezzo e questi pneumatici me lo consentono”, spiega **Stefano Modena**, ex pilota di Formula 1. Con una stoccata: “Del resto io vengo da un mondo dove se fai i traversi non ti stai divertendo, stai solo andando più lento degli altri”. La prova su pista, con pneumatici Roadhawk e della concorrenza diretta, nuovi e usati per 20mila chilometri, dà ragione a lui e Firestone. “Quando si è trattato di rilanciare Firestone, nel 2014, avevamo davanti una bella addormentata”, racconta Thierry Jupsin. “Un brand mitologico per molti, soprattutto negli Stati Uniti, dov’era legato a indy car e formula 1”. E tira fuori l’episodio di quella volta in cui si è visto un americano pronto a mettere mano al portafoglio per portarsi a casa il giubbetto “d’ordinanza” con logo Firestone. “D’altra parte, i giovani lo conoscevano poco”. In questi tre anni, c’è stato un doppio rinnovamento: sul prodotto, con il lancio di 6 nuovi tipi di gomme. E sull’immagine, che riparte dalla “voce” del brand, la musica. “Non facciamo semplicemente sponsorizzazioni, vogliamo che il nostro apporto sia autentico. Firestone è da sempre un marchio autentico”. Da qui la scelta di puntare sugli artisti emergenti – “qualsiasi genere va bene, basta che non siano super commerciali” e non su un grande nome. Un investimento che dà soddisfazioni, anche se si tratta di seguire concerti in piccoli club, e di investire le energie su un’attività che va seguita tutto l’anno. “In Italia abbiamo lavorato da febbraio a novembre”, spiega Daniela Martinez, Manager, PR & Communications di Bridgestone Europe - South Region. Ogni country organizza un contest. Gli artisti vengono votati via web e chi vince può suonare in un festival o essere pubblicato. Un’attività che si svolge sul sito di Firestone e sui canali social. “Abbiamo un livello di interazioni su Facebook altissimo”, dice Jupsin. E il futuro? “Non ci accontentiamo. Ogni anno abbiamo aggiunto qualcosa. Quindi ci saranno sorprese”. Firestone, oltre al Primavera Sound, è presente in altri 8 festival europei, di cui due in Italia: Collisioni (nel Barolo, a luglio) e Home Festival (Treviso, a settembre).# 5 cose su Sete di Jo Nesbo, spiegate da Jo Nesbo Non c’è pace per **Harry Hole**. Dopo avere conosciuto l’esilio di Hong Kong ed essere morto (o quasi), e infine avere mollato le indagini per stare con l’amata Rakel, il suo creatore **Jo Nesbo** lo fa tornare sulle tracce di un serial killer (uno solo?) in **Sete** (Einaudi, anche in ebook), undicesimo romanzo con protagonista l’ispettore (ora insegnante alla scuola di polizia della sua Oslo) che dieci fa era un culto e ora è un bestseller, con decine di milioni di copie vendute, un film in arrivo (Fassbender gli presterà il volto) e l’invito a prendere posto nel palchetto riservato agli dei della scrittura nera (**James Ellroy** per primo, ma non è solo). C’è voluto tempo, per questo investigatore scassato dalle dipendenze (l’alcol, le sigarette e… il lavoro), con una vita impossibile e metodi discutibili, abituato a muoversi tra puttane, eroinomani, assassini e poliziotti corrotti. La strada che **Harry Hole** ha percorso è lunga, lunghissima. Questo è l’undicesimo capitolo, a tre anni di distanza (nel nostro e nel “suo” mondo) da **Polizia**, romanzo a cui è strettamente legato – se non l’avete letto, vi conviene farlo prima di **Sete**. E magari anche un ripassata ad altri titoli del passato, come **Stella del Diavolo** non fa male… Torna Harry Hole, ma è cambiato: più maturo, quasi vecchio, abbastanza saggio, quasi sereno – incubi a parte –, non beve, addirittura fa sport. E ha mollato le indagini. Fino a prova contraria, ovviamente. Uno dei temi di **Sete** è quella strana condizione per cui ci troviamo a odiare quello che sappiamo fare meglio, ma che siamo costretti a fare: per senso del dovere, o perché quello è il nostro ruolo nella società. Così Harry torna dal prepensionamento che si è scelto - insegnare alla scuola di Polizia - per mettere al gabbio l'unico killer che gli sia sfuggito. Per catturarlo, Harry deve uscire dalla torre d’avorio che si è creato, la casa nel quartiere tranquillo, antica e resistente, il suo fortino d’amore con **Rakel**, la donna della sua vita, che finalmente ha sposato. Perché Harry Hole è il migliore in quello che fa, come Wolverine, ma quello che fa in fondo lo odia. Jo Nesbo, invece, non odia quello che sa fare meglio: scrivere. “Lo farei anche gratis”, spiega. E cita Springsteen: “è come essere pagati per fare qualcosa che spetta ai re”. Alla soglia dei 56 anni, vestito in jeans e piumino in una Milano d’inizio primavera dove il vento soffia ancora fresco, ma non come nella sua Norvegia ovviamente, all’inizio sta sulle sue – come gli compete giustamente da scandinavo di fronte a un italiano – e poi sempre più caloroso, carismatico e coinvolgente, Jo non è un semplice autore di crime. L’incontro dal vivo conferma il sospetto che avevamo da tempo. Nesbo è un grande narratore dei nostri tempi, un osservatore attento di questo mondo. Che ci guarda dall’alto: da Oslo. E anche lui, proprio come Harry Hole, non esisterebbe senza questa capitale unica in tutta Europa. “Ho un relazione romantica con la mia città”, spiega lui. Nel giro di trent’anni, con i soldi del petrolio, la capitale norvegese si è trasformata da paesone del profondo nord a una delle città più ricche e importanti del continente. Un cambiamento simboleggiato dalla costruzione dello splendido **teatro dell’Opera**, landmark architettonico che è un’autentica fissazione per i norvegesi tutti – più bello per com’è fatto, che per quello che viene rappresentato al suo interno, sottolinea Nesbo. Ma Oslo è stata anche una delle città con la più alta percentuale di eroinomani negli anni Settanta. Un passato recente di morte, violenza e degrado che nessun container di petroldollari e nessunaa riqualificazione urbana è riuscita a cancellare del tutto. Tuttavia, non è così pericolosa come nei suoi libri, ammette l’autore. “Il pericolo c’è, ma devi andartelo a cercare”. Ma non è l’unica cosa che troverai in Sete, che come tutti i libri di Nesbo non è un semplice giallo, ma una prova d’amore per la sua città e una tra le letture migliori sulla piazza. Perché **Sete** non è solo un bellissimo romanzo crime. È anche una delle avventure più belle degli ultimi anni, con un finale da perderci la testa (letteralmente). **Caffè**. In **Sete**, Nesbo lo scrive esplicitamente. Oslo è uno dei migliori posti dove bersi un caffè nel pianeta. “Ma anche il vostro a Milano non è male. È famoso, il caffè di Milano?”, chiede. E poi racconta che, un po’ come i personaggi dei suoi romanzi, anche la sua vita si consuma per parecchio tempo nei bar. “Ho una casa bellissima, con una magnifica vista”, spiega lo scrittore. ”Mi sono anche comprato una splendida scrivania, enorme”. Ma alla fine la usa solo per controllare le email, e va a scrivere al caffé. Dove, come tutti, deve arrivare presto per trovare posto. In generale, i romanzi che tanto ci piacciono non vengono quasi mai scritti in casa. “Uno dei miei posti preferiti per scrivere sono gli aeroporti”, spiega. E sorridendo: “sono l’unica persona che è felice quando un volo parte in ritardo”. **Alcol**. La scimmia sulle spalle di Harry Hole. E quello che ce lo rende umano, forse. Ma anche lo specchio di una situazione, quella norvegese, dove l’abuso d’alcol è stato combattuto mandando i prezzi alle stelle (soprattutto per chi non gli altissimi stipendi scandinavi) e rendendolo difficilissimo da reperire. Negli anni del socialismo reale, spiega Nesbo, ubriacare la popolazione era uno strumento di controllo. Ovviamente le tradizioni sono difficili da sradicare. Così lo scrittore racconta una tradizione che ancora vive nelle zone rurali della Norvegia, quella del karsk, una bevanda che si ottiene mescolando caffé e alcol fatto in casa. Si pone una moneta sul fondo di una tazza e la si riempie di caffè finché non la si vede più. Ogni volta che riappare, si rabbocca con l’alcol. Quando sparisce dalla vista, si può smettere di versare. E bere ancora. **Musica**. La colonna sonora della saga di Harry Hole è una corsa tra le montagne russe di punk, rock anni Settanta, indie di fine secolo scorso del quale ci eravamo dimenticati tutti (i Kaiser Chiefs!). Ma Jo Nesbo fa anche parte di una band, i Di Derre. Rivela che fanno il genere che non t’aspetti, un tranquillissimo pop e testi che raccontano storie, è una “sing-along band”, come la definisce lui. Pare che Bob Geldof, un grande fan di Harry Hole, contattò Nesbo per andare a vederlo suonare dal vivo co la sua band. E non rimase proprio entusiasta. Anche lo scrittore più nero ha un lato solare. **Tinder**. In Italia siamo tutti un po’ convinti che serva poco a rimorchiare, invece pare che in Norvegia funzioni alla grande. Il sesso occasionale nell’epoca dei social network è una manna per un giallista e Nesbo non si lascia ovviamente sfuggire l’occasione. E la figura della donna che ne esce, fortissima e indipendente, ma anche vittima dell’abuso e oramai abituata agli stalker, è quanto mai attuale, miglia lontana da quella idealizzata dai fanatici del politicamente corretto. “Il caffè dove scrivo è un ritrovo per gli appuntamenti di Tinder”, dice Nesbo. Che è rimasto molto colpito, ovviamente, da come si svolge un dialogo finora inimmaginabile, quello di chi si “matcha” online e poi si incontra nella vita reale. “Alcuni di quei dialoghi volevo trascriverli”, confessa. E poi racconta di una sua amica, a quanto pare tinderista cintura nera, alla quale lui incuriosito chiedeva ogni dettaglio di quello che le capitava: le conversazioni, gli uomini e gli incontri: talvolta fin troppo normali, altre volte bizzarri, occasionalmente pericolosi. Esattamente come li ritroviamo in **Sete**. **Vampirismo**. È il tema del libro, che non si occupa tanto di vampiri, quanto di vampirismi. La sindrome di Renfield, dal nome del fedele servitore di Dracula, è una patologia che la psichiatria ufficiale non ha mai accolto troppo seriamente nel suo catalogo, e consiste nel desiderio irrefrenabile di nutrirsi di sangue di animali, ma anche di altri uomini. L’idea del libro è nata per caso: “stavo facendo delle ricerche per altre cose in un enorme archivio sotterraneo quando mi è capitato tra le mani un dossier su un presunto vampirista”. Il caso più famoso della storia è quello di **Peter Kürten**, il Vampiro di Dusseldorf, che terrorizzò la città tedesca a inizio Novecento uccidendo nove persone e succhiando il loro sangue. Quando fu catturato e condannato alla pena di morte per decapitazione, racconta Nesbo, il serial killer consultò il dottor Karl Berg e gli chiese se, una volta che gli fosse stata staccata la testa, avrebbe avuto il tempo di godere dello spruzzo di sangue scaturito dal suo stello collo mozzato, prima di perdere per sempre conoscenza. # Mass Effect: Andromeda, il gioco che voleva essere troppo In uno sconfinato universo in cui la noia si fa cosmica cosa ti resta da fare? Sparare agli alieni, ovvio. E pensare che questa avventura voleva arrivare là dove nessuno è mai giunto prima. La recensione La notizia con cui al mondo è stato servita l’uscita del nuovo capitolo di **Mass Effect**, il quarto di una delle saghe più vendute delle precedenti generazioni di console, è questa: [le digitalizzazioni dei volti volti sarebbero di scarsa qualità e il motivo è che a farle, o meglio a dirigerne la produzione, sarebbe stata una cosplayer](http://www.polygon.com/2017/3/18/14969390/mass-effect-andromeda-lead-animator-harassment) , ovvero lo stereotipo della “figa scema” in un mondo sovraffollato dai maschi (e dal maschilismo). La news è stata smentita da Bioware, la software house che sviluppa Mass Effect, ma il capro espiatorio (anzi, la capra) servita su un piatto d’argento ha sviato l'attenzione da un videogame che non è, [almeno stando alle prime recensioni](http://www.metacritic.com/game/playstation-4/mass-effect-andromeda) , il capolavoro che si sperava. Nelle prime ore il gioco non è certo il più entusiasmante: il protagonista (o la protagonista, a scelta del giocatore) si sveglia da un lungo sonno criogenico, precipita su un pianeta tutto fulmini che sembra messo lì per ricordarti [il colosso **Vah Naboris** del nuovo Zelda](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2017/03/07/il-nuovo-zelda-ha-sconfitto-il-nemico-che-ci-sta-fregando-tutti-la-nostalgia/) , guida la batmobile dei coloni spaziali (ma non si dovrebbe guidare da sola?). Combatte, prova le sue abilità telecinetiche (“biotiche”), perlustra cripte e visita nuovi pianeti. In una decina e passa d’ore di gioco ho esplorato, mi sono guardato intorno, ho cercato di essere curioso e conoscere l'ambiente. In realtà, sbagliando. Scoprivo dopo poco tempo che per andare avanti nella storia principale basta seguire le stelline sulla mappa, interagire con il tasto Y premuto a lungo, sparare ai cattivi, interagire con Y, dare risposta alle tediose conversazioni in cui mi trovo coinvolto cliccando sempre l'icona con la rotella nel cervello della risposta intelligente, fare una corsetta nella base spaziale, cambiare pianeta, conoscere nuovi alieni, scegliere l'icona con la rotella, tenere schiacciato Y, seguire la stella sulla mappa e così via, meccanicamente verso l'universo e oltre. Certo le battaglie contro alieni e droidi sono divertenti e ben disegnate. Ma da questo gioco ci aspettavamo tutti molto di più. Sono decenni che esploriamo lo spazio nei videogiochi, insieme a**Electronic Arts**, l'azienda che pubblica **Mass Effect**, almeno dal 1986, quando pubblicò Starflight, un gioco di ruolo di esplorazione galattica che ha fatto scuola e a suo tempo raccolse il favore di **Orson Scott Card**, l'autore di Ender's Game, che lo definì “il Guerre Stellari dei giochi di fantascienza”. Sempre rimanendo in zona Jedi, **Bioware** ha firmato The Knights Of The Old Republic (2011), il gioco di ruolo “spaziale” per eccellenza dei nostri anni - com'è noto, molte idee furono poi riciclate in Mass Effect. **Andromeda**, il quarto capitolo, sostanzialmente uno spin off della trilogia originale, è il figlio di una lunga tradizione e si ispira a un grande filone della tradizione della space opera: l'arca stellare in cerca di un nuovi pianeti da colonizzare e soprattutto di una nuova terra. Un classico, da **When Worlds Collide** del 1933 fino a **Hull Zero Three** di Greg Bear, pubblicato qualche anno fa, che abbiamo visto in tutte le salse, dalle versioni paradossali (nella Guida Galattica) a quelle cospirazioniste (Ascension) fino a un recentissimo adattamento cinematografico non proprio riuscito (Passengers). Dentro Andromeda ci sono, oltre ai primi tre Mass Effect, **Star Wars** (di default) e **Star Trek**, **Battlestar Galactica** e **Halo**, un po’ di **Destiny** e l’aspirazione all’infinito di **No Man’s Sky**. La nave stellare si chiama Hyperion, come la nota saga sci-fi di **Dan Simmons**. Il passato è un gigante sulle cui spalle montare per guardare ancora più lontano; ma in questo caso si tratta di un gigante pericoloso, tormentato, dalle mille identità e che non va assolutamente preso sottogamba. Così Andromeda sembra l'opera di un dodicenne che si è messo in testa di scrivere una grandissima storia di fantascienza dopo avere visto in tv qualche puntata di **Star Trek: The Next Generation**. Il protagonista è il pathfinder, “Pioniere” (boh) nella versione italiana. A seconda della scelta del giocatore sarà uomo o donna; non lo diventi per particolari meriti, pathfinder, ma perché sei figlio del pathfinder precedente. Grazie a una tumultuosa avventura in una cripta gigantesca dotata di tecnologia avanzatissima, le tue azioni all'interno dell'Iniziativa per la colonizzazione impennano. Sarà anche che sei l'unico pathfinder rimasto in circolazione. Il resto è tutto piuttosto prevedibile: un pianeta abitabile che sembra arrivato dal sistema **Trappist**, una razza aliena brutta e cattiva, un po’ orchi e un po’ Klingon, la Resistenza capeggiata dai sosia di **Jar Jar Bings** (brrr) e così via. Da un videogioco sull'esplorazione cosmica [nell’epoca in cui il turismo spaziale è diventata realtà](https://www.gqitalia.it/news/2017/02/28/spacex-porta-due-turisti-spaziali-intorno-alla-luna/) , aspettarsi qualcosa di più, uno sforzo, un’idea originale, era il minimo. La sensazione, dopo averlo giocato per un po’ di ore. è che **Andromeda sia troppo.** Ma non quel troppo che ti trascina via e ti spinge sulle rotte del sublime, come ti poteva succedere in Mass Effect 2. È un troppo che risulta in un troppo poco. Troppi personaggi, troppe opzioni, troppe citazioni. Troppe missioni secondarie. Troppe complicazioni nei menù. Troppi cose da leggere. Troppe armi, troppi poteri. Troppe cut scene. Troppe tipologie di alieni, comunque tutte dimenticabili. Troppe corse nei corridoi prima di entrare nelle missioni. Troppe attese. E troppa, troppa superficialità nel delineare le storie, le figure e le meccaniche di gioco. **Un gigantesco già visto a cui si fatica a rispondere se non con un gigantesco chissene**. E un'impressione terrificante. Che non ci sia una singola, buona idea originale a sostenere questo elefante che ha partorito meno di un topolino. Il lead designer, **Ian S. Frazier**, volando altissimo, ha citato tra le opere che hanno ispirato il gioco **Firefly** di Joss Whedon, [Interstellar, il magnus opus spaziale di Christopher Nolan, e The Expanse](http://www.rollingstone.com/culture/news/mass-effect-andromeda-game-inspired-by-expanse-firefly-w468682): la serie tv di SyFy (che trovi anche su Netflix), tratta dai romanzi della serie Leviathan, forse non è la risposta della science fiction al Trono di Spade come molti credono, certamente è un modo per niente banale di affrontare la **space opera**, oggi. Ci sono le colonie e i viaggi nello spazio. Ma si mischiano i generi, gli scenari urbani sembrano quelli dei nostri incubi, la visione politica mette i brividi; la cosmologia è studiata nel dettaglio, la narrazione è potente e le morti sono atroci. È una storia da cui non ti stacchi. Mette insieme gli elementi, quelli giusti, con buone idee originali e un filo rosso che lega la saga alla nostra realtà senza mai scadere nell’ovvio. Una space opera contemporanea che è già un classico. [A rischio di cancellazione](http://bit.ly/2nnpQ3Q) . Perché la fantascienza dura e pura è cara agli affezionati, ma non al grande pubblico, in tv. I videogiochi fanno storia a parte. **Mass Effect Andromeda**, con le sue trame già viste e i suoi alieni poco originali, ma anche un universo sconfinato e sparatorie che si preannunciano epiche, riuscirà a conquistare il cuore dei cowboy del joypad? **Abbiamo provato Mass Effect Andromeda grazie a una copia fornita da Electronic Arts e giocata su Xbox One S**. # Ma ci serviva davvero un film di Assassin's Creed? Non che sia un pessimo film, anzi. Ma emozionerà pochi e quei pochi si sentiranno a disagio «Ha fatto il Balzo della Fede!». È quando una **Marion Cotillard** rigida come non mai pronuncia queste esatte parole, subito dopo il formidabile salto di **Michael Fassbender,** che il mio disagio all'anteprima per la stampa del film di **Assassin's Creed**, in una mattinata di fine dicembre, si fa enorme, complice anche un doppiaggio non certo irresistibile, a cui però non si possono dare tutte le colpe. Perché ne ho fatti a centinaia, di Balzi della Fede. Forse migliaia, anche se li ho sempre chiamati Salti. Il Salto della Fede è un volo nel nulla, che di solito finisce in un carro di paglia. Almeno nei videogiochi, perché Fassbender invece atterra plasticamente in una posa in ginocchio come il migliore Batman. Il Salto è una delle cose più belle della serie di videogiochi di **Assassin's Creed**. Perché è sostanzialmente inutile. Un lungo vertiginoso tuffo dall'altezza delle aquile a quella degli uomini. Una firma di destrezza, un segno con cui intendersi tra pochi eletti. Perché tutti gli altri, scendono per le scale. E ridono, se lo vedono al cinema. I videogames hanno ispirato molte cose belle. In attesa di **Ready Player One**, per il cinema basta citare **Tron** e **War Games** – e **Kung Fury**, ovviamente. La storia dei film tratta dai videogiochi invece è sciagurata. Il caso più recente, **Warcraft**, un'accozzaglia di luoghi comuni fantasy firmata da Duncan Jones, non è andata malissimo, ma la sua fortuna resta un'inezia rispetto al gioco online che per anni ha trasformato una generosa fetta di occidentali in **hikikomori** persi davanti al pc. La meccanica del videogioco è passata da Pong allo scorrimento orizzontale obbligato dei platform al trionfo dell'esplorazione totale negli open world, ma in tutto questo tempo di film buoni, da Super Mario in giù, non se ne sono visti. Improbabili, infantili, pieni di stereotipi. Chi si aspettava che il cinema sdoganasse il videogioco e i suoi immaginari è rimasto a bocca asciutta. Ma forse non ce n'è neanche bisogno. Di tutte le saghe che hanno fatto la storia recente del videogioco, ovvero da quando è una forma di intrattenimento che fa concorrenza al cinema per incassi, **Assassin's Creed** è quella che forse si presta meglio a un adattamento. In dieci anni ha costruito una mitologia terribilmente pop. Ci sono complotti, sette, esperimenti scientifici, città del passato, un eroe ignaro che rivive le gesta eroiche dei suoi antenati. Il film riprende i temi, cambia i nomi dei protagonisti, evita strade ovvie - usare personaggi già visti nei giochi, come Ezio Auditore, che tutti i fan avrebbero voluto protagonista - e reinventa la storia adattandola. Un frullatone di Assassin's Creed. Mal digeribile. Forse il cinema del futuro sarà così. Visionario a tempo perso. Speriamo di no. Più che un film, sembra una inesorabile sequenza di trailer di un videogioco 3D bellissimo che non vedrà mai la luce. Ci sono troppi personaggi, piani temporali a profusione e dialoghi spesso talmente ermetici che sembra di essere finiti in una puntata di Lost. La Cotillard che chissà a cosa pensava, forse a Brad Pitt. Il film di Assassin's Creed sembrerà un polpettone complottista di cui si capisce pochissimo, per chi non conosce il complesso retroscena dei giochi. Tutto già visto, invece, per noi altri medaglia d'oro olimpica in **Salto della Fede.** Eppure. Eppure mi ha emozionato da matti. Quando i protagonisti attaccano dai tetti, come ho fatto io mille volte. Mentre volano su e giù per i cornicione di una città labirinto con il loro parkour medievale. **Callum Lynch**, l'assassino dell'oggi, rivive la grande avventura del suo antenato Aguilam, come io ho rivissuto quelle di **Ezio**, di **Connor/Ratonhnhaké:ton**, dei gemelli **Frye**. Tutto, anche quel quel Balzo da pelle d'oca, un attimo prima che il cinema esplodesse in una fragorosa risata. E mi sono sentito terribilmente a disagio. Perché se non avessi passato buona parte delle vacanze di Natale degli ultimi anni su e giù per i tetti nei panni di un assassino, probabilmente avrei riso anche io. Xxxxxxxx Perché io capivo. Mentre tutti ridevano. E se il videogioco voleva dimostrare di essere un media maturo, entrato nella sua fase adulta, questo è un pessimo biglietto da visita da presentare a tutti quei babbani che un joypad in mano non lo prenderanno mai. XXXC'è un alfabeto nei videogiochi. Si scrive con il joypad, si impara lentamente, si dimentica con fatica. È l'abc per entrare in qualcosa di più grande. Mondi. Interazioni. Esperienza. Quell'alfabeto ti si scrive dentro. Non ti molla più. Ma si può tradurre sul grande schermo? C'è una parola in italiano, riduzione. La si usa per indicare il processo di adattamento da romanzo. Film. Ma un videogioco non è un libro. Non è un racconto. È qualcosa di diverso. C'è un ragazzo ignaro di essere il discendente di una stirpe di Assassini. C'è una setta che governa di nascosto le sorti del mondo. Sono i Templari, ma potevano chiamarsi Illuminati o Massoni, l'effetto sarebbe stato lo stesso. Ai templari e agli assassini Mi hanno anche spiegato che Callum, discendente di Assassini, ha la violenza nel sangue. Ma deve trovare la sua strada, il suo addestramento. Fantastico! # Final Fantasy XV non ti salverà dalla nostalgia di Final Fantasy Come per tutte le grandi saghe, a ciascuno il suo **Final Fantasy**. Ci sono i fan dei primi capitoli, che hanno definito il dna dei giochi di ruolo su console. C’è chi ama alla follia il **VI**, l’ultima grande uscita su SNES, e poi ci sono i supporter del **VII**, il primo su PlayStation, forse non un gioco perfetto, però quello che tra tutti ti è rimasto nel cuore perché non solo perché una cosa del genere non l’avevi mai giocata, e poi come per le grandi serie tv ha i personaggi più incredibili e la morte più dolorosa. Poi Final Fantasy **IX**, che chiude la trilogia della prima console Sony con un gioco esteticamente bellissimo e decisamente divertente. Infine, il **XII**, uno splendido canto del cigno per la PS2, sicuramente il capitolo meglio riuscito tra i più recenti. Uscì nel 2006 in Giappone e Usa, in Europa addirittura nel 2007, quando oramai risparmiavamo sui giochi per comprare la **PlayStation 3**. **E dieci anni più tardi, è arrivato Final Fantasy XV**. Atteso dopo una travagliatissima gestazione, ma anche temuto dai fan come il capitolo che avrebbe potuto fare naufragare la serie, è uno dei giochi più divertenti dell’anno. L’avvio della trama è da favola, in tutti i sensi: il principe **Noctis** parte con i suoi 3 amici per andare a sposare la nobile **Lunafreya**. Il matrimonio dovrebbe sancire la fine delle ostilità tra il **Regno di Lucis** e **l’Impero di Niflheim**. Non ci sarà nessun matrimonio, ma una incredibile avventura, e il principe incontrerà il suo destino. È un mondo tutto nuovo, quello di Noctis e compagni, ma molti caratteri ti rimandano direttamente nell’atmosfera dei migliori **Final Fantasy**: la combinazione di fantastico e moderno, magia e tecnologia; quello spirito delle piccole cose, come il **side quest** in cui aiuti un gatto, o quando scopri che l’abilità del tuo personaggio principale, Noctis, è la pesca (sì, proprio pescare; con la lenza, soprattutto). Ma anche la grande epica, gli scontri titanici, la lotta tra bene e male, il tema della predestinazione e dei destini che si incrociano per salvare il mondo. Le creature magiche e incredibili. Il Bahamut e i **chocobo**! Ma a gioco concluso, al di là dei calli ai pollici dopo le interminabili corse su e giù per lo schermo, il sapore che ti resta addosso è soprattutto quello dell’avventura di una banda di 4 amici, che potevano essere i tuoi **bff** del liceo, ognuno con i suoi tratti, le sue spensieratezza, le sue debolezze, la voglia di vivere anche in un momento in cui la necessità principale è sopravvivere. Come **Trainspotting** o **i Ragazzi della Via Pal** o **Stranger Things**. Quattro amici che fanno il road trip della loro vita a bordo di una splendida macchina, la Regalia – sì, proprio un’auto, con il meglio delle colonne sonore di **Final Fantasy** che vanno in loop sull’autoradio. Questo il bello. Ma non basta. Perché il gioco, nonostante una trama abbastanza coinvolgente, seppur non originalissima, parte con le migliori aspettative e poi si perde. Un po’ come quei libri che iniziano una trilogia, mettono giù ottimi fondamenti, ti fanno assaporare le potenzialità di quello che verrà, ma niente di più. E poi ci sono una serie di meccaniche riguardanti la giocabilità che non possono essere omesse dal giudizio complessivo: il **sistema di combattimento** funziona, ma tende a essere ripetitivo; la squadra dei personaggi non è modificabile e tra di loro solo **Noctis** è fortemente customizzabile. Le **ascension**, le capacità speciali che i personaggi guadagnano, sono un labirinto in cui è difficile orientarsi, ma facile annoiarsi, anche perché non sembrano poi così determinanti. Alle volte vorresti fare interagire il tuo personaggio con un oggetto e lui salta! Insomma, dopo un buon avvio, tra sgommate, ragazze sexy alla stazione di benzina e qualche primo, esattamente scontro, a poco a poco **Final Fantasy VX** comincia a deludere. Sotto molti punti di vista. Ma non è una semplice delusione. Perché FF XV ti spalanca lo stomaco per il rimpianto. Ti ricordi quel colpo di scena del **sei**? E com’erano fighi i personaggi del **sette**, tu lo usavi Cid? E i combattimenti del **dodici**? **Chissà cosa ci ricorderemo di Noct e compagni**. Forse che erano in fondo un gruppo di simpaticoni, come gli amici dell’interrail, e a lui piaceva pescare. Ma ora la nostalgia per tutti quegli altri **Final Fantasy** è tornata. E quasi mi ci metto a giocare. Che fosse questo il piano, fin dall’inizio? **Abbiamo provato Final Fantasy XV con una copia promo su Xbox One. Molti dei titoli citati, precisamente dal primo capitolo al VII, e anche il IX, sono disponibili negli store iOS e Android.** # Rogue One. La storia di Star Wars che non avresti mai voluto vedere **Skeletor** era cattivo, **He-Man** era buono. **Atreyu** era buono. Il **Nulla** ovviamente cattivo. L'**Uomo tigre** era buono. **Ralph supermaxieroe** era buono. I **Ghostbusters** erano buoni e pure simpatici. **Luke Skywalker** era **strano**. Primo, era troppo potente. Secondo, era figlio del cattivo. E poi sembrava, come dire, dubbioso. Sotto quel caschetto biondo da pirletti californiano, lo vedevi un po' perso. Tentato dal peccato. Come dargli torto. Sai invece chi erano i veri buoni di Guerre Stellari? **I ribelli**. Perché lottavano contro l'Impero. L'Impero era il male, erano dei bulli, se la tiravano da precisini nelle uniformi. Erano prepotenti con la loro superarma più amarra di un booster truccato, la **Morte Nera**. L'Impero era quel tipo pauroso e vestito di scuro che veniva a dirti “sono tuo padre” dopo non averti filato per tutta la vita. L’Impero era un incubo. I ribelli dell'Alleanza erano i buoni! E dei gran fighi. Volavano sugli **X-Wing** (gran gioco, tra l'altro). Avevano l'ammiraglio calamaro. Ed erano anche amici degli **Ewok**! E invece no. “Siamo spie. Siamo sabotatori. Siamo assassini”. Così si presentano nel 2016 i ribelli. Giocano nella squadra dei buoni, ma giocano sporco. Ribellarsi è una faccenda necessaria e loro non sono i fighetti che lo fanno tra un colpo di spada laser, un dissing con Han Solo e l'ultima filastrocca sul Lato Oscuro. Sono dubbiosi. Sono divisi in faziosi. Non sono neanche poi così stilosi come te li ricordavi. Sono umani. Sono noi, che non siamo stati Jedi e non lo saremo mai. All'improvviso, per la prima volta, in **Rogue One** vedi che Guerre Stellari potrebbe essere benissimo il tuo futuro. O forse ci sei già dentro fino al collo. *«Cercavo di pensare a cose innocue. A qualcosa che ho amato nell'infanzia, a qualcosa che non avrebbe mai portato distruzione... al pupazzo di boli di lichene!» (Ray in Ghostbusters)* Due ore di fucilate, esplosioni, città che saltano in aria. Dei morti si perde il conto quasi subito. Spade laser, invece, nessuna. La **Forza** c'è, ma non si vede. **Rogue One** piacerà a tutti coloro che di **Guerre Stellari** hanno sempre mal sostenuto la parte mistica, gli Jedi agghindati da monatti e ossessionati dai loro poteri new age. D'altra parte Rogue One è la prova che un film di Guerre Stellari senza Jedi alla fine è un film di fantascienza come tanti altri. Rogue One poteva essere **Star Trek** o **Babylon 5** o qualsiasi cosa tratta da **Heinlein**, poco cambia. Ci sono giusto uno pseudo Jedi cieco con spada di legno e un droide che sembra rapito all'ultimo da un film di Miyazaki, neanche troppo riuscito e simpatico, messi lì quasi come segnaposto a ricordarti che questa è **davvero** una storia di Guerre Stellari. È un film di guerra, né più né meno, Rogue One. Le ambientazioni in stile medio orientale, con le sequenze della prima parte in una città massacrata che pare Aleppo e il gran finale con la guerra che arriva a Dubai, lo sottraggono alla leggerezza con cui dismettiamo dall'empatia certe battaglie di fantasia. Non vedi mai in faccia lo **stormtrooper** agonizzante, ma sotto l'armatura il suo corpo frantumato dalla battaglia si spegne lo stesso. Questa è la guerra, dolcezza. E la guerra, anche quella con il bollino **Disney**, fa sempre schifo, chiunque vinca alla fine. Questo film non racconta la lotta contro il Lato Oscuro. Ti mostra piuttosto come, nel male assoluto, il bene diventi relativo. Detto chiaro e tondo, mentre esistenze immiserite da un mondo meschino si spengono tra pianti e boati e una luce accecante che porta tutti via, e non criptato in qualche misteriosa e sgrammaticata elaborazione verbale di **Yoda**. Rogue One forse sarebbe stato una bellissima serie tv. È un buon film Disney di Natale, con un finale che da Disney non ti aspettavi. Forse non molto di più. Ma al tempo stesso è la storia di **Guerre Stellari** che aspettavamo da tempo, e che non avremmo mai voluto vedere. # Nella nuova Cina di #Huawei Metà novembre, **Shenzen**, Cina meridionale. Un caldo da maglietta e occhiali da sole. Umido, umidissimo. Lo senti nel naso e nelle ossa. Come a Milano d'estate, con un retrogusto più denso di smog. Nel distretto **Longgang** di questa megalopoli sorta dal nulla e diventata immensa nel giro tre decenni, il quartier generale di **Huawei** è un quartiere vero. In un reticolo di strade ordinate e filari d’alberi sorgono i padiglioni; splendenti, luminosi, razionali, dalle proporzioni quasi smisurate. E, per fortuna, con l'aria condizionata. Dimentica tutto quello che ti sei immaginato sulle “fabbriche cinesi”. Gli headquarter di Huawei sono la migliore espressione di una **Cina** nuova. Ci accolgono due ragazze, bellissime, elegantissime e leggiadre nella loro divisa. Poco distante, in un laghetto da favola, uno stormo di cigni neri si fa trasportare dalla corrente; attendono gli europei in visita per le consuete foto di rito, prima della pausa pranzo. Nell'ultimo anno, **Huawei** ha fatto centro con due top di gamma, il [P9](http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/10/05/huawei-p9-e-p9-plus-design-e-performance-al-servizio-dello-stile/) e il **Mate9** (anche in versione [Porsche Design](http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/11/03/huawei-mate-9-caratteristiche-e-prezzo-del-supertelefono-cinese-ma-un-po-tedesco/) ), potentissimi e dotati di doppia fotocamera co-engineered con **Leica**; ma anche con il suo primo tablet Windows 10, il MateBook (“il primo di una serie”, dice ~~**XXX**~~ ). All'Ifa di Berlino sono stati presentati il tablet [MediaPad M3](http://www.gqitalia.it/gq-christmas/tech-gq-christmas/2016/11/21/regali-di-natale-2016-5-migliori-tablet-da-8-pollici/) , con il comparto audio curato da **Harman** – “crediamo molto nei tablet per l’intrattenimento” – e i nuovi telefoni mid-range **Nova**. Se prima sembrava una faccenda tra **Apple** e **Samsung**, quella del mercato mobile, l'azienda cinese ha iscritto di prepotenza il suo nome nel terzetto in lizza per il Pallone d'Oro. È anzi di pochi giorni fa la notizia che Huawei è diventato [la prima azienda mondiale in termini di profittabilità](http://fortune.com/2016/11/23/huawei-displaces-samsung-most-profitable-android-smartphone-maker/) nel mercato degli smartphone Android. Un successo che non è improvvisato, ma arriva da lontano: fondata nel 1987 da **Ren Zhengfei**, ex ingegnere dell'Esercito Popolare di Liberazione, prima ancora delle milioni di persone che usano i suoi device, Huawei ha conquistato il mondo network con apparati di telecomunicazione e antenne, che restano il primo business dell'azienda; dal 2012 è il più grande produttore del mondo, un primato che prima deteneva la Ericcson. Nella lista dei partner ci sono tutti i leader di settore, come **Vodafone**, **BT**, **Orange** e **Telecom Italia**. Il comparto di telefoni e tablet vale oggi il 30% del fatturato annuo, una cifra in crescita continua. L’Italia è il primo mercato mobile per Huawei in Europa, con un brand awareness del 92%. Fino a qualche anno fa, non raggiungeva il 50%. «La compagnia cinese con il maggior successo globale», l'ha definita **Richard McGregor**, giornalista del Financial Times, nel suo **The Party**, libro fondamentale per capire la Cina d’oggi. Di sicuro è una azienda dove tantissimi vogliono lavorare: è nella top 100 delle più desiderate su **LinkedIn**. La fortuna del brand, entrato nel 2007 tra le 200 Most Respected Companies secondo **Forbes** e l’anno successivo premiato come la quinta più innovativa da **Businessweek**, va di pari passo con l’affermarsi in campo tecnologico della Cina ed è quello che forse meglio la rappresenta. Il paese che fu di Mao si è trasformato in una potenza commerciale e industriale che conquista l’Occidente. Con la qualità. Il consumatore ha imparato dall’esperienza che Made in China è un'etichetta di affidabilità. E Huawei è uno dei marchi più cool del pianeta. Le collaborazioni con **Leica**, **Harman** e **Porsche** raccontano bene quella che più di una trasformazione è una naturale evoluzione. Un successo che comincia qui, a Shenzen, dove fino a pochi anni fa per strada c'erano ancora i risciò. Oggi ci sono 6 linee di metropolitana e altre in arrivo, un aeroporto internazionale firmato Fuksas e uno dei porti commerciali più attivi del pianeta. **Shangai** e **Hong Kong** colpiscono per la giustapposizione di alto e basso, lusso e storia, Bentley e motorini elettrici, alveari e torri, ristoranti stellati e karaoke notturni in bar improvvisati sul marciapiede, con transenne per muri, tavolini da campeggio e un frigo con le bibite. **Shenzhen** invece è un trionfo subtropicale di highways che tagliano la città, sotto ai grattacieli: tantissimi, altissimi, squadrati e maestosi; centri commerciali dove si susseguono monomarca dei brand che vedi nei nostri viali dello shopping e del lusso. Traffico, cantieri, giardini ovunque. E una strana sensazione di frenesia e benessere al tempo stesso: sembra l'America degli anni 50, ma aggiornata all'oggi. La sera si va ai giardini del porto, sulle gradinate per lo spettacolo di fuochi d'artificio, a mangiare anatra a Le Duck Chinoise, all'ultimo piano di un futuribile centro commerciale, o a scorrazzare tra i tavoli all’aperto dei locali del **Coco Park**, a cui si accede da un anonimo corridoio, affollatissimo come se fosse la Milano degli anni '80, dove una serata non è degna di questo nome se non finisce al **Pepper**, il club in cima alle scale, dove una solerte signora pulisce ogni quindici minuti la pista facendo lo slalom tra i tavolini e chi balla, mentre in console si alternano **dj** internazionali, quest'anno anche da Berlino e ancora più in là. **Coco Park**, dove l'Occidente è un sogno esotico e un ideale insieme, c'è un locale che si chiama Sicilia (una cinese mi ha anche corretto la pronuncia, «si-si-lia», ma il barista non sa farti un Vodka Redbull. Per strada, nei treni della metropolitana e nelle stazioni, la tecnologia è ovunque, gli smartphone sempre in mano. Perché la nuova Cina è contraddittoria e benestante, turbocapitalista con la bandiera falce e martello nelle reception delle aziende, con fake market per i turisti mentre i cinesi vestono tutto firmato. Non ci sono **Facebook** e **Google**, ma la spesa o il caffè li paghi dal telefono con **WeChat** e **AliPay**. Dove ti giri, qui, respiri fiducia nella tecnologia, nel progresso e nella conquista del benessere. Difficile immaginare Shenzhen 40 anni fa, quando era una cittadina di pescatori, una stazioncina sulla ferrovia Kowloon-Canton. Nel 1979, per decisione di **Deng Xiaoping**, che una gigantesca effigie a **downtown** commemora, Shenzen diventò la prima Zona Economica Speciale della Cina. Oggi è la capitale della **Sylicon Valley** cinese, e tra città e area metropolitana si contano circa 20 milioni di abitanti. Qui ci sono i grandi nomi della tecnologia Made in China: BYD, Coolpad, ZTE, OnePlus e Dji. **Ma Shenzhen è prima di tutto la città di Huawei**. Nel quartier generale di Huawei il futuro è già presente. La grandezza della visione è quella che solo un leader nel settore delle telecomunicazioni può avere. Le smart home e le città connesse (e supersicure) appaiono come l'ovvio postulato di un miglioramento delle reti, con connessioni iperveloci **5G** e sempre meno aree scoperte. Uno scenario nel quale lo smartphone resta centrale, ma l'intelligenza artificiale si allarga a oggetti connessi: l'auto può prenotare un posto libero in un parcheggio; [Linglong Dingdong](https://www.wired.com/2016/11/behold-chinas-answer-amazon-echo-linglong-dingdong/) , uno speaker che ricorda l’Echo di Amazon, gestisce la casa con semplici ordini vocali. “I miei genitori non sanno usare lo smartphone, per cui regolano le luci intelligenti con questo”, dice la ragazza che guida alla scoperta della casa intelligente di **Huawei**, mostrando un semplice pulsante portatile. Semplice, ma intelligentissimo. E poi ci sono i sistemi di sicurezza, che permettono di individuare soggetti e tracciarne gli spostamenti, e quelli per la gestione razionale del traffico. Sono soluzioni globali che raccontano bene l'emergenza locale, la nascita della nuova Cina, dove tutto d’un tratto bisogna fare i conti, su scala poderosa, con i “nostri” problemi: la viabilità, per esempio, ma anche la criminalità – che tuttavia qui è presente in misura minima. Nella sfida con il lato oscuro del progresso emerge l'identità di questa azienda in costante ricerca di soluzioni per migliorare la vita delle persone. Che sia su scala mondiale, con le tecnologie, o locale, con un sistema di welfare aziendale che è unico. A **Shenzhen**, dove acquistare casa ha prezzi proibitivi (si parla di circa 20mila euro a metro quadro), Huawei mette a disposizione dei nuovi arrivati, per lo più neolaureati, carichi di entusiasmo e nuove idee, 3000 stanze nei campus a prezzi calmierati. In città ci sono ospedali e scuole costruiti da **Huawei** e ci saranno, insieme agli alloggi per le famiglie dei dipendenti, anche nel nuovo centro, in costruzione fuori città, che dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi. Una strategia, quella di curare l’essere umano prima di tutto, mettendolo nelle migliori condizioni per lavorare, che si è rivelata vincente. Dei 170 milioni di dipendenti **Huawei** in tutto il mondo, una grandissima percentuale (45% circa) si occupa della ricerca. Una filosofia aziendale che sta dando i suoi risultati. I centri research & development sono 16, sparsi per tutto il pianeta: in Cina, ovviamente, ma anche negli **Stati Uniti**, in **Europa** e in **Russia**. “Hai sempre bisogno delle menti migliori di ogni paese”, spiega il country manager italiano **James Zou**, citando il caso di un matematico russo che ha sbrogliato una situazione apparentemente irrisolvibile nella progettazione di un chipset. L'istruzione, e le nuove idee sono pilastri portanti del successo di **Huawei**. L'azienda reinveste fino al 15% degli utili in ricerca e sviluppo. E il suo vero gioiello qui a Shenzhen è il **Centro di formazione**, immerso nel verde, immenso negli spazi, con mense di ogni genere e tipo, supermercati, bar; qui vengono da tutto il mondo per studiare casi specifici e reali di business e soluzioni tecnologiche. I corsi sono di tutti i livelli, dai junior ai senior – questi ultimi pagano, e tanto, per assistere alle lezioni. Senza nessuna paura di farsi rubare segreti. “Possiamo condividere tutto, quello che fa la differenza è l'esecuzione”. Ovvero il fattore umano, quello che resterà sempre vincente. Parola di **Ren Zhengfei**, il fondatore di Huawei.